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Virus Ebola: le lezioni dell'epidemia

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21/01/2015

Tratto da:
Eugenia Tognotti, La lezione del virus, La Stampa, 3 gennaio 2015

Guida alla lettura

In questa sobria riflessione, Eugenia Tognotti – docente di Storia della Medicina all’Università di Sassari – traccia un provvisorio bilancio dell’epidemia di Ebola. Molti gli spunti posti sul tappeto, che la studiosa giustamente chiama “lezioni”: il drammatico bilancio di morti registrato nel 2014; la speranza che apre il 2015, legata a nuovi farmaci e vaccini; la vicenda positiva di Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency contagiato e poi guarito; e soprattutto l’elevatissimo numero di medici e infermieri colpiti e uccisi dal morbo, un altro – forse il più eloquente – dei tristi primati di questa terribile malattia.
Un tributo di sangue dovuto certamente alla carenza di protezione individuale; ai turni di lavoro massacranti, che favoriscono l’errore per mancanza di lucidità; alla maligna somiglianza fra i sintomi iniziali dell’Ebola e quelli di altre patologie, per le quali non sono previste specifiche precauzioni. Ma anche – ed è questo vorremmo maggiormente sottolineare – al concorso di due fattori contrari fra loro: la carenza di formazione, specialmente nel personale locale; e la “pietas”, che insieme ad “ars” e “scientia”, ci ricorda la Tognotti, informa l’agire medico più nobile e profondo.
L’urgenza di una formazione sempre più accurata e capillare è un’esigenza di tutta la medicina mondiale, in un’epoca di crescenti specializzazioni (che amplificano la conoscenza dei fenomeni specifici, ma riducono la capacità di visione clinica complessiva) e di sfide sanitarie sempre più complesse. Anche la nostra Fondazione, nell’ambito del dolore nella donna, lavora quotidianamente perché a tutti i professionisti della salute siano offerti aggiornamenti puntuali sulle conoscenze più avanzate in tema di meccanismi fisiopatologici, diagnosi differenziale, terapie.
Le ragioni della “pietas”, dal canto loro, ci ricordano che Platone, nel Gorgia, parla per la prima volta di terapia come “therapeía theôn”, cioè sollecitudine, attenzione, rispetto, cura degli dei e del divino. Lo stesso Platone ritorna poi sull’argomento e parla della “therapeía toû sómatos, tès psychés”, “terapia del corpo e dell’anima”, in virtù della quale il medico dovrebbe avere per il malato tutta l’attenzione, la sollecitudine, la cura che merita la scintilla di divino che è in lui. Lo stesso termine “clinica”, d’altronde, deriva dal greco “klínomai”, che indica in prima istanza l’atto del chinarsi con delicatezza e competenza sul capezzale del malato, per ascoltarlo, visitarlo e fare una diagnosi corretta.
I medici e gli infermieri morti per Ebola hanno davvero saputo chinarsi su chi soffriva, mettendo a repentaglio la propria stessa vita. E ci ricordano, con il loro sacrificio, l’importanza che il sapere ha nella scienza e nella vita contemporanee, ma anche l’esigenza di non disgiungerlo da una prassi concreta di amore e compassione.
Ad un anno di distanza dall’individuazione del primo focolaio di Ebola in Guinea – destinato a scatenare l’incendio che ha dato una sveglia scioccante al villaggio globale – apre il cuore alla speranza la guarigione di Fabrizio Pulvirenti, il medico volontario italiano guarito da Ebola. E non solo perché il nostro connazionale “ce l’ha fatta”, come si dice. Ma anche perché – e Dio solo sa se ne abbiamo bisogno – ci troviamo di fronte a una bella storia, a una “success story” tutta italiana, una volta tanto, che ha diversi protagonisti. Prima di tutto il coraggio, la generosità, la forza di volontà di un medico “militante”, un buon samaritano del nostro tempo, che ha già dichiarato la sua ferma intenzione di tornare in Sierra Leone. E poi c’è Emergency, la Sanità italiana e, naturalmente, un’eccellenza come l’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, che ha curato il paziente al meglio, con quattro farmaci sperimentali che saranno resi noti una volta conclusa la procedura prevista dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Ma questa storia a lieto fine rimanda, per contrasto, alle tante storie di medici e infermieri – apostoli laici nell’inferno dei malati di Ebola – che si sono ammalati e hanno perso la vita, in centinaia, in Guinea, Liberia e Sierra Leone. Perché Ebola, tra i tanti primati, ha anche questo, senza precedenti nella storia delle grandi emergenze epidemiche che hanno attraversato i secoli, dalla peste alla febbre gialla, al colera: l’impressionante percentuale dei medici, infermieri, operatori sanitari infettati (e morti). Molti i fattori in campo: la carenza di dispositivi di protezione individuale (compresi talora maschere e guanti), il loro uso improprio o la mancanza di formazione. Ma occorre tenere in conto la “pietas” (una delle categorie dell’agire medico, insieme ad “ars” e “scientia”) che spinge molti, data la carenza di personale, ad addossarsi turni massacranti nei reparti di isolamento: una situazione in cui è facile sbagliare. Mentre l’errore è in agguato nelle aree rurali dove i sintomi di Ebola si confondono, all’esordio della malattia, con quelli della malaria, della febbre tifoide e della febbre di Lassa, per le quali medici e infermieri non ricorrono a misure di protezione.
In uno degli ultimi numeri, l’autorevole giornale medico Lancet ha pubblicato una sorta di commosso necrologio collettivo per rendere omaggio ad alcuni dei morti, in trincea fin dai primi casi. Sottolineando, da una parte, quale tragica perdita sia stata quella di educatori-eroi nazionali che costituivano per i loro Paesi un punto di riferimento essenziale ai fini della formazione delle future generazioni di operatori sanitari in Africa. Ed esortando, dall’altra, a mettere in campo mezzi, risorse e personale per colmare le lacune nella protezione e nel trattamento degli operatori sanitari che rischiano di ferirsi – come ha detto il medico italiano – «nella lotta contro un nemico spietato».
Quello che si è appena concluso sarà ricordato come l’anno dei 7000 morti di Ebola. L’Anno del Signore 2015 comincia con i segnali di rallentamento del ritmo dei nuovi casi in Liberia e Sierra Leone, con l’uso, approvato dall’OMS, del siero e il sangue dei convalescenti per curare le persone colpite dalla malattia e con i primi promettenti risultati dei vaccini e dei farmaci in fase di sperimentazione. Ebola – un moderno incubo – ci ha dato molte lezioni: c’è da sperare che nei prossimi mesi non vadano perdute.

Biografia

Eugenia Tognotti è professore ordinario di Storia della Medicina all’Università di Sassari. Nel corso della sue ricerche, si è occupata di malaria nel bacino del Mediterraneo, emergenze epidemiche attraverso i secoli (peste, vaiolo, colera, influenza), malattie emergenti e riemergenti, nonché di politica sanitaria, pedagogia medica e storia degli ospedali.
Nel 1998 ha vinto il premio Lao Silesu con la monografia “La malaria in Sardegna. Per una storia del paludismo nel Mezzogiorno (1880-1950)”. Fra le altre sue pubblicazioni spiccano “La ‘Spagnola’ in Italia. Storia dell’epidemia che fece temere la fine del mondo, 1918-19 (2002) e “L’altra faccia di Venere. La sifilide dalla prima età moderna all’avvento dell’Aids (XV-XX sec.)” (2007).
E’ opinionista del quotidiano “La Stampa” e del suo inserto settimanale “TuttoScienze”, per i quali scrive di emergenze sanitarie del nostro tempo, medicine alternative, medicina antica e umanizzazione delle cure.
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