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Memorie da una casa di morti

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03/09/2014

Tratto da:
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Memorie da una casa di morti, a cura di Fausto Malcovati, Traduzione e note di Maria Rosaria Fasanelli, Giunti Gruppo editoriale, 1994, Firenze, p. 98-99

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Emanuela Aliquò

Guida alla lettura

All’alba del 23 aprile 1849, i poliziotti di Nicola I arrestano e trasferiscono alla fortezza di Pietro e Paolo (San Pietroburgo) il giovane Dostoevskij, per la partecipazione attiva al circolo politico-culturale fondato da Michail Petraševskij, un socialista utopista. Insieme con gli amici, sarà condannato alla pena capitale per reato politico, ma la condanna, dopo una sadica e delirante farsa dinanzi al plotone di esecuzione, sulla piazza Semenovskaja, verrà commutata in lavori forzati: «Pochi minuti ancora e poi la morte. E invece pochi minuti ancora e torna la vita»: così si esprime Fausto Malcovati, nella sua deliziosa introduzione al libro da cui è tratto il brano che oggi pubblichiamo. Una delle circostanze più drammatiche e significative dell’esistenza di Dostoevskij sarà pertanto rappresentata dalla sconvolgente odissea della condanna e della prigionia che ne seguirà, da quell’abisso oscuro, e fecondo, che tanto saprà insegnargli sul «carattere rivelativo della morte, del dolore, del delitto» (Luigi Pareyson, Dostoevskij, Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 1993, p. 8).
“Memorie di una casa di morti” (1862), un’opera semplice e straordinaria, specie per il calore delle riflessioni e la ricchezza delle nude verità espresse – pagine leggibili come «una breccia che, attraverso le tenebre e la desolazione, può condurre alla luce e alla speranza» –, è appunto la narrazione biografica dei quattro interminabili anni trascorsi in Siberia, nella fortezza di Omsk, a contatto diretto con quel popolo da cui lo scrittore apprenderà l’arte della sopportazione e punti di vista altri sulla vita (Tat’jana Kasatklina, Dostoevskij, Il sacro nel profano, BUR, 2013, Milano, p. 69).
Sul piano narrativo, per non apparire direttamente, Dostoevskij si serve dell’artificio del “falso-autore”: lo scrittore non parla in prima persona, ma immagina di avere tra le mani gli appunti di un certo Gorjančikov, un proprietario terriero condannato ai lavori forzati per avere ucciso la moglie; la struttura si presenta frammentaria e casuale, in sintonia con la scelta di non voler manipolare il materiale “ritrovato”.
L’opera, caratterizzata da una disarmante semplicità espressiva, può collocarsi nel filone della letteratura carceraria: essa ci offre un quadro attento e preciso del reclusorio siberiano, con le sue norme di sopravvivenza, i suoi riti curiosi, la sua rigida organizzazione, le sue leggi; descrive la condizione subumana dei forzati e la crudezza delle pene corporali; ci offre il ritratto vivo e indimenticabile di alcune persone che sono passate accanto allo scrittore; ci fa partecipi delle difficili condizioni di vita dell’autore e delle sue sofferenze, specie spirituali; ci alleggerisce con il tentativo di vedere e far affiorare, pur in mezzo a tanta miseria e degrado, talenti, energie, sprazzi di luce.
La pagina che proponiamo, ritagliata quasi dalla fine del sesto capitolo, dedicato al primo mese di detenzione, è preceduta da alcune sequenze che evidenziano il difficile rapporto fra l’autore e gli altri detenuti: Dostoevskij condivide con noi le sue tormentate riflessioni su come doversi porre dinanzi a quegli uomini (il cui odio nei confronti dei nobili oltrepassava ogni limite), nonché l’amarezza per aver dovuto subire, durante le ore di quel giorno di lavoro, i rimproveri, gli scherni (utili allo “spasso generale”), l’allontanamento quasi ingiurioso da parte degli altri detenuti. E’ questo il filo che può aiutarci a entrare nello spirito del brano e nello stato d’animo di chi narra.
Quella stessa sera, lo vediamo errare solo e angosciato nello spazio abbastanza grande tra le baracche e lo steccato, al riparo dagli sguardi di tutti. Lo seguiamo nel suo vagare e assaporiamo con lui attimi di bellezza indicibile: l’incontro con il riconoscente Šarik, il cane “permanente” del reclusorio che «lo aveva cercato fra tutti gli altri», provocherà infatti nell’Autore un inatteso e inspiegabile slancio esteriore e quel groviglio di dolcezza e di amarezza (Dostoevskij è maestro nel rappresentare l’intreccio e l’ambiguità tra piacere e sofferenza), in grado di rompere il torpore del suo spirito; più in generale, la condivisione di una costante amicizia con quella intelligente creatura “inviatale dal destino” alleggerirà la durezza di “quel cupo periodo”.
In altre pagine, l’autore scriverà che Šarik veniva ignorato perché la gente del popolo riteneva che il cane fosse un animale sporco e che comunque, se fosse stato consentito dall’ordinamento e dalle condizioni ambientali, i detenuti avrebbero allevato volentieri un gran numero di uccelli e di animali domestici, cui si sarebbero affezionati. E poi, quel costruttivo interrogarsi: «Quale occupazione migliore di quella per mitigare e migliorare il carattere burbero e rude dei detenuti?» (Fëdor Dostoevskij, op. cit. p. 251).
Quanto agli spunti di riflessione, non possiamo innanzitutto non pensare alla preziosissima influenza sulla salute umana dell’interazione uomo-animale, ancor di più con riguardo a categorie particolarmente vulnerabili come «gli anziani istituzionalizzati, i bambini ospedalizzati o con sviluppo atipico, i pazienti psichiatrici e per chiunque si trovi in una situazione parziale o temporanea di isolamento sociale» (Francesca Cirulli [a cura di], Animali terapeuti, Carocci Faber, Roma, 2013, p. 34).
C’è poi, nel testo, la luce rassicurante di come il piacere derivante dal sentirsi amati e attesi, o semplicemente riconosciuti, possa costituire, nel dolore e nelle difficoltà, un’esperienza profondamente consolante.
C’è la testimonianza di come gli animali, ai quali l’intera opera dostoevskiana riserva pagine di elevata poesia, specie con riferimento alla cosiddetta “sofferenza inutile”, possano insegnare a noi esseri umani (spesso così disattenti) quella gratitudine ed empatia in grado di accrescere la qualità delle nostre relazioni.
Non possiamo infine non lasciarci toccare ancora dal pensiero globale dell’Autore che ci invita a non dimenticare che nell’armonia del tutto ogni cosa, ogni essere, deve ritrovare il suo posto e che «agli animali il Signore ha donato un germe di pensiero e una gioia imperturbabile» che deve essere rispettata «per non contrastare il disegno divino» (Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di Agostino Villa, Einaudi, Torino, 2005, p. 423).
Quella sera, quando tornai in prigione dal lavoro pomeridiano, stanco, stremato, mi sopraffece nuovamente una terribile angoscia. «Quante migliaia di giorni così mi aspettano», pensavo, «tutti identici a questo, tutti quanti!». All’imbrunire, erravo solo, in silenzio, dietro le baracche, lungo lo steccato, quando, d’un tratto, vidi il nostro cane, Šarik, che mi correva incontro. Šarik era il cane della prigione, così come ci sono i cani delle compagnie, delle batterie, degli squadroni. Viveva in prigione da tempo immemorabile, non apparteneva a nessuno in particolare, ma si comportava come se tutti fossero suoi padroni e si nutriva degli avanzi della cucina. Era un animale piuttosto grande, con il pelo nero a macchie bianche, bastardo, non molto anziano, con gli occhi intelligenti e la coda soffice. Nessuno giocava mai con lui, nessuno gli rivolgeva la minima attenzione. Invece io, dal primo giorno, gli avevo dato qualche carezza e del cibo con le mani. Mentre lo accarezzavo se ne stava quieto quieto, mi guardava dolcemente e, in segno di contentezza, agitava la coda. Adesso che non mi vedeva da molto tempo – ed ero stato io il primo in tanti anni a cui fosse venuto in mente di vezzeggiarlo – mi aveva cercato fra tutti gli altri, correndo di qua e di là, poi, una volta che mi aveva trovato dietro le baracche, mi era corso incontro con un guaito di gioia. Non so cosa mi prese, ma mi misi a ricoprirlo di baci, ad abbracciargli la testa; il cane mi saltò con le zampe anteriori sulle spalle e si mise a leccarmi la faccia. «Ecco un amico inviatomi dal destino!», pensai, e ogni volta che tornavo dal lavoro, in quel duro, cupo periodo, la cosa che facevo prima di qualunque altra, era di affrettarmi dietro le baracche con Šarik che mi saltellava davanti e guaiva dalla gioia, per abbracciargli il capo, dargli tanti baci, mentre un sentimento dolce e, al tempo stesso, angosciosamente amaro mi stringeva il cuore.

Biografia

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, scrittore russo, nacque a Mosca nel 1821. Cresciuto in una famiglia dominata dal carattere cupo e dispotico del padre, medico militare, trascorse la sua giovinezza a San Pietroburgo. Rimase orfano a sedici anni della madre e a diciotto del padre. Dopo aver conseguito la laurea in Ingegneria militare fu nominato ufficiale, ma abbandonò la carriera per dedicarsi esclusivamente alla letteratura. A San Pietroburgo frequentò gli ambienti intellettuali rivoluzionari; fu arrestato per tentativo di sovversione e condannato a morte. La condanna fu poi tramutata in deportazione e lavori forzati in Siberia, dove scontò quattro anni di penitenziario. Questa difficile esperienza influì moltissimo sulla sua formazione personale e lo avviò a una profonda riflessione sui drammi della società contemporanea e sui problemi dell’uomo moderno.
Tornato a San Pietroburgo fondò con il fratello Michail la rivista “Vremia” (Il tempo) e riprese la sua attività di scrittore. Gli anni successivi furono segnati da traversie economiche e lutti familiari (nel 1868, la morte del fratello e della prima moglie, Marija Dmitrievna; nel 1878, quella della figlioletta, nata dal matrimonio con Anna Grigovievna) che lo portarono ad avvicinarsi al gioco d’azzardo, dal quale non riuscì più a liberarsi.
Le sue opere principali sono fondate sulla riflessione intorno alle grandi domande esistenziali: il perché della vita, del dolore, della morte, il destino dell’uomo e del mondo, l’esistenza di Dio. In questo faticoso e impegnativo cammino interiore, Dostoevskij trovò conforto e risposta illuminante nel cristianesimo, che riconobbe come l’unica fede in grado di appagare la sua sete di giustizia e di libertà.
La sua capacità di penetrare profondamente l’animo umano, rivelandone le paure, le speranze e i tormenti, ci ha lasciato pagine indimenticabili ed è riscontrabile in tutti i suoi grandi romanzi: “Memorie dal sottosuolo” (1864), cui fecero seguito “Delitto e castigo” e “Il Giocatore” (1866), “L’idiota” (1868), “I demoni” (1871-1872), “I fratelli Karamazov” (1879-1880). Dostoevskij morì nel 1881 a San Pietroburgo.
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