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Memoria del limite. La condizione umana nella società post mortale – Parte 2

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11/02/2015

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura

Nella prima parte di questa riflessione sulla società post mortale, Luciano Manicardi – vice priore della Comunità Monastica di Bose – ha spiegato in che cosa consiste il sogno di “amortalità” (rinviare indefinitamente la morte naturale) e il fondamento filosofico che conduce all’illusione di poter curare la morte come una qualsiasi malattia.
In questa seconda e ultima parte, Manicardi illustra la conseguenze tecniche ed esistenziali della promessa di amortalità, ne svela il carattere mitico e mostra come prendere sul serio la morte, la sua ineluttabilità e la sua universalità, possa fondare un’etica condivisibile da credenti e non credenti.
Quattro gli snodi cruciali dell’analisi:
- il tentativo di liberare il corpo dai suoi limiti non è altro che l’esacerbazione – e il tradimento – dell’idea illuministica di perfettibilità umana, che viene espropriata della sua dimensione sociale, politica e culturale per essere individualizzata e trasferita nel dominio della biologia;
- l’avvento del cyborg già preannunciato dalla fantascienza, ossia l’organismo integrato in misura sempre maggiore da parti artificiali e sostituibili, genera la triste situazione di un corpo disincarnato, «senza storia e senza tempo»: a ben vedere, il più grave impoverimento possibile per chi, come l’essere umano, è fatto di speranze e di progetti, di memoria e di ricordi;
- questa «versione ipermoderna del tentativo di vincere l’angoscia e la paura della morte, l’orrore del disfacimento del proprio corpo, il terrore dell’annichilimento di sé, della propria sparizione, del non-esserci-più» sembra affermare il primato della scienza nella nostra vita, ma in realtà «resta pienamente all’interno della dimensione mitologica e religiosa», in cui il medico prende semplicemente il posto del sacerdote. E questa mitologia è molto più ricca e diversificata di quella tradizionale perché «la scienza è inesauribile e i nostri progetti si sono moltiplicati»;
- l’accettazione della morte può avvicinare credenti e non credenti, perché per superare l’angoscia non c’è altra via che la solidarietà e solo «nella finitezza del nostro amare noi sperimentiamo l’infinitezza del nostro essere».
Convinta che ormai non esista più il “biologicamente impossibile”, la società post mortale intende consentire a ogni individuo di controllare biologicamente il proprio destino e fa della vita in se stessa e del suo prolungamento l’obiettivo da perseguire ad ogni costo. L’idea di perfettibilità umana (già illuministica) viene radicalizzata, esacerbata, espropriata della sua dimensione sociale e politica, individualizzata e spinta verso la frontiera dell’affrancamento del corpo dai suoi limiti. E soprattutto dal suo limite radicale, la morte.
Lottare contro la morte diventa di fatto lottare contro il corpo cercando di pervenire, attraverso la medicina rigenerativa, alla creazione di un corpo-senza-morte. Il post mortale si muove in un’ottica di svalutazione sistematica del corpo di cui persegue la riprogrammazione (attraverso tecnologie bioingegneristiche e bioinformatiche) per ovviare alle sue deficienze, e di cui intravede il superamento. Le biotecnologie operano manipolazioni del corpo, innesti e ibridazioni che conducono a radicali mutamenti dello statuto del corpo. La distinzione tra naturale e artificiale diviene sempre più problematica: attraverso modificazioni chirurgiche, introduzione di sostanze che mutano l’aspetto esteriore, innesto di protesi, il corpo sta divenendo sempre più un corpo mutante: l’età, l’aspetto fisico, il sesso possono essere trasformati intervenendo sul corpo. Il “cyborg”, il corpo umano integrato da parti meccaniche e artificiali, è visto da molti come il futuro dell’evoluzione umana.
Come scrive ottimamente lo psicanalista Andrea Baldassarro, «l’essere umano è sempre più affare di corpi indagati, controllati e trasformati: indagati per conoscerne la natura più intima, controllati per sostenere l’illusione di una cura “sine fine”, trasformati per aumentarne le potenzialità fino al superamento della condizione di mortalità. La fantasia di un corpo al silicio, replica immortale del corpo biologico destinato al deterioramento e alla morte, motivo ricorrente di certa letteratura fantascientifica in voga negli ultimi anni del secolo scorso, sembra incarnare l’idea di un corpo disincarnato, privo dei legami e delle identificazioni con l’altro. Un corpo autosufficiente, autogenerato e autorigenerantesi, senza storia e senza tempo».
Tuttavia, le fantasie su un corpo protesizzato, oltreumano, non più caduco, vanno riconosciute per quel che sono: la versione ipermoderna del tentativo di vincere l’angoscia e la paura della morte, l’orrore del disfacimento del proprio corpo, il terrore dell’annichilimento di sé, della propria sparizione, del non-esserci-più. Vanno colte come la forma attuale, radicalmente de-sacralizzata e secolarizzata, del sogno mitico dell’immortalità. Ma che resta pienamente all’interno della dimensione mitologica.

Carattere mitico della post mortalità
La post mortalità, che sembra aver preso drasticamente le distanze dal religioso e dal mitologico, in realtà costituisce una riproposizione contemporanea del mitologico e del religioso, in una prospettiva priva di ogni dimensione di trascendenza. Nelle sperimentazioni e nelle teorizzazioni più spinte la scienza ormai si confonde con la fantascienza e dà origine a un’idolatria per cui la scienza stessa si trova investita dell’incarico di operare quella fuoriuscita dal male, dalla malattia e dalla morte che normalmente l’uomo affidava alle religioni. Il verbo scientifico diviene oracolo di salvezza: il tecno-profetismo annuncia l’era messianica della “morte della morte” quaggiù, in quella che un tempo era la misera “lacrimarum vallis”. Liberando lo spirito dal corpo e innestando l’essenza dell’umano, cioè l’intelligenza, su supporti indistruttibili (si pensi all’Intelligenza Artificiale), la tecno-religiosità promette l’accesso alla vita eterna qui e non nell’al di là. Le nanotecnologie alleate con l’ingegneria genetica fanno dell’uomo il soggetto di una nuova “creazione”: uccidendo la morte, l’uomo elimina Dio e si fa lui stesso creatore.
Le tante forme con cui la società post mortale cerca di percorrere la via dell’allungamento della vita umana (ibernazione, creazione di cloni umani da usare come banca di organi, coltivazione di nuovi organi da utilizzare in sostituzione di quelli usurati o malati…) rappresentano una vera e propria esplosione immaginifica di mitologico al cuore dello scientismo razionalista e tecnologico più spinto. In effetti, quale fondamento empirico può mai avere la credenza nell’estensione illimitata della vita umana? Non ne ha più di qualunque affermazione religiosa e teologica assolutamente non dimostrabile. Fuse con l’anelito di matrice illuministica di emancipazione dai limiti umani, perfino dalla morte, sponsorizzate da aziende farmaceutiche che hanno intravisto in questo settore le prospettive di un proficuo e durevole business, rinascono così le antiche attese mitologiche rivestendo gli abiti ipermoderni di sogni tecno-scientifici. Davvero, sarebbe ingenuo credere che l’evoluzione intellettuale contemporanea si sarebbe tradotta in una diminuzione del sostrato mitologico. Al contrario, la nostra mitologia proveniente dalla scienza è più ricca e diversificata della mitologia di matrice religiosa dei nostri antenati per il semplice fatto che la scienza è inesauribile e perché i nostri progetti si sono moltiplicati.
Il fatto che il post mortale non sappia riconoscere la propria dimensione mitica rende pericoloso l’armamentario scientifico e tecnologico posto a servizio della ricerca dell’elisir di lunga vita in chiave ipermoderna. Questa cecità è foriera di future, inquietanti sorprese. E il sogno dell’immortalità così secolarizzato, tecnologizzato, materializzato, rischia di trasformarsi in un incubo per i mortali, cioè, per i viventi.

Comune mortalità, comune umanità: elogio del limite
Altrove ho espresso dettagliatamente le critiche alle derive che nascono dalla miseria della concezione antropologica sottesa al post mortale (L. Manicardi, Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, Vita e Pensiero, Milano 2011). Qui mi limito a sottolineare che prendere sul serio la morte, la sua ineluttabilità, il suo carattere di limite che dà forma al vivere, la sua universalità, può fondare un’etica condivisibile da credenti e non-credenti. Edgar Morin esprime qualcosa di pienamente condivisibile da parte degli uni e degli altri: «Il Vangelo dice: Diventiamo fratelli, viviamo da fratelli, e saremo salvati. Io dico: Diventiamo fratelli, viviamo da fratelli, perché siamo perduti. Senza voler imporre questo vangelo della perdizione, io credo che la coscienza umana debba integrare questa incertezza, questa angoscia e questa presenza della morte. E per superare l’angoscia non c’è altra via che la partecipazione, la comunione, l’amore. Il solo modo di sopportare questo niente che ci circonda, è di vivere poeticamente, di vivere nell’amore la nostra condizione umana. L’amore che il Cantico dei Cantici dice essere forte come la morte, è, almeno, il suo unico antidoto».
L’unica eternità umana è quella che può essere dischiusa dall’amore. L’amore all’interno di una vita finita. Il filosofo Gabriel Marcel l’ha espressa così: «Amare qualcuno significa dirgli: tu non morirai». Nella finitezza del nostro amare noi sperimentiamo l’infinitezza del nostro essere. Nel frammento del nostro amore noi sperimentiamo il tutto dell’amore. In questa esperienza di amore, che può andare fino al dono della vita, il cristiano vive anche l’annuncio e la prefigurazione della resurrezione e della vita eterna.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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