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Memoria del limite. La condizione umana nella società post mortale – Parte 1

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28/01/2015

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura

In questo denso e originale articolo Luciano Manicardi – vice priore della Comunità Monastica di Bose – riflette sulle caratteristiche della società post mortale: ossia, di quella particolare declinazione della società post moderna che risponde al desiderio dell’uomo di prolungare indefinitamente la vita attraverso il superamento tecnico, o per lo meno il continuo allontanamento, dell’evento “morte”.
Due gli snodi argomentativi fondamentali di questa prima parte dell’articolo, che chiariscono in modo limpido come la vittoria sulla morte non sia soltanto un obiettivo di ordine medico, ma anche, e soprattutto, un’istanza di natura filosofica:
- se il sogno dell’immortalità è antico come l’uomo, nuova è la risposta della società post mortale: essa postula infatti «la dislocazione del sogno dai cieli alla terra, dagli dei agli umani, dal domani dell’aldilà all’oggi del qui e ora». La speranza e la promessa non sono più religiose, ma scientifiche e mediche. Grazie ad esse, pur non potendo diventare realmente immortale (poiché si può sempre perire per un incidente, per violenza o per una catastrofe naturale), l’uomo può diventare “amortale”, ossia rinviare la morte naturale per un periodo di tempo molto lungo e, seppur solo teoricamente, all’infinito;
- l’amortalità, a sua volta, è resa possibile dalla decostruzione del concetto di morte: oggi non si muore più in assoluto, ossia perché si è mortali, ma si muore soltanto di qualcosa, per una causa specifica, individuale, definibile, isolabile. L’accento si è spostato sulla causa della morte, e sulla causa – sottolinea Manicardi – si può e si deve intervenire: «La morte perde così il suo statuto di naturalità e viene assorbita all’interno della sfera della malattia» che, al pari della vecchiaia, è sempre potenzialmente curabile.
La seconda parte dell’articolo illustrerà la conseguenze tecniche ed esistenziali della promessa di amortalità, ne svelerà il carattere mitico e mostrerà come prendere sul serio la morte, la sua ineluttabilità, il suo carattere di limite che dà forma al vivere, la sua universalità, possa fondare un’etica condivisibile da credenti e non credenti.
Incerta omnia, sola mors certa
«Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi, gli uomini, abitiamo una città senza mura». La morte, ricordano queste parole di Epicuro (IV-III sec. a.C.), pone un sigillo di precarietà sulla vita umana. Al tempo stesso la morte, limite radicale della vita umana e realtà insecurizzante per eccellenza, è la sola certezza dell’uomo. Agostino lo afferma in modo lapidario: «Incerta omnia, sola mors certa» (Tutte le cose sono incerte, sola la morte è certa). Stando a questa tradizione, che è la tradizione occidentale tout-court (esemplificata in un antico filosofo pagano e in uno dei massimi pensatori cristiani), la morte è il limite invalicabile e ineludibile della condizione umana.
Per noi oggi sorgono però le domande. E’ ancora vero che la morte sia percepita come limite invalicabile? A partire dall’illuminismo, lo statuto della morte nelle nostre società occidentali è cambiato profondamente: come si sta configurando il presente e come si profila il futuro alla luce dei mutamenti che la concezione della morte e gli atteggiamenti nei suoi confronti hanno conosciuto e stanno conoscendo ora nell’epoca delle tecnoscienze in Occidente?
La coscienza della mortalità fondò nella nostra cultura un universalismo ben espresso dalla premessa maggiore del sillogismo famoso: «Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale». Ma oggi, la premessa generale del sillogismo (tutti gli uomini sono mortali) è ancora sentita come valida? Oggi non è solo la ribellione alla conclusione particolare (Socrate è mortale, Tizio è mortale, io sono mortale) che conduce allo stravolgimento di questa verità lapalissiana, ma è in atto il tentativo di minare dalle fondamenta la premessa stessa.
Che queste domande e prospettive non siano ipotesi fantascientifiche, ma verificabili in una quantità di ambiti, lo mostra il saggio “La societé postmortelle”, della sociologa canadese Céline Lafontaine (trad. it.: Il sogno dell’eternità. La società post mortale. Morte, individuo e legame sociale nell’epoca delle tecnoscienze, Medusa, Milano 2009).

La società post mortale
Che cos’è la società post mortale? E’ la società postmoderna vista dall’angolo prospettico della ridefinizione dell’esperienza e del concetto della morte che in essa è in atto. La società post mortale è caratterizzata dalla volontà di vivere senza invecchiare, di vincere la morte con la tecnica, di prolungare indefinitamente la vita. Far indietreggiare la morte, intervenire sulle sue cause, modificarne le frontiere, controllare l’insieme dei suoi parametri, comprendere il suo processo per prolungare il più possibile la vita, spingere sempre oltre i limiti della longevità umana: questo caratterizza la post mortalità.
Se antico come l’uomo è il sogno di immortalità, la società post mortale osa un passo sconosciuto alle altre epoche storiche: essa afferma, contando sull’impressionante forza di persuasione propria delle scoperte e delle innovazioni tecnoscientifiche applicate all’ambito biomedico, la realizzabilità di tale sogno, il passaggio del sogno allo stato di realtà, la sua dislocazione dai cieli alla terra, dagli dei agli umani, dal domani escatologico dell’aldilà all’oggi del qui e ora. Nel post mortale emerge una speranza non più religiosa, ma scientifica e medica. Alla promessa di una immortalità dell’anima, si sostituisce quella di una relativa amortalità del corpo.
Il concetto di amortalità è stato ben precisato da Edgar Morin: «Noi oggi sappiamo che nell’impossibilità di essere immortale (poiché l’immortalità è una concezione religiosa inverificabile), l’uomo può diventare amortale, vale a dire, teoricamente, prolungare indefinitamente la sua vita. Nondimeno egli resta mortale perché può sempre morire per un incidente, un errore, una catastrofe, un cataclisma».
Il rapporto che ogni epoca e ogni società intrattengono con la mortalità si accompagna sempre all’elaborazione di una strategia di immortalità. Ogni società si fonda su una scommessa di immortalità, dunque anche la società detta “postmoderna”. Ovvero la società che, forte del dispiegamento di tecnologie sempre più raffinate, ritiene ormai di poter vincere la scommessa.
La società post mortale è il prodotto del processo di privatizzazione e medicalizzazione, de-ritualizzazione e de-simbolizzazione della morte iniziato già nell’Ottocento. La morte è stata decostruita per cui oggi non si muore più, si muore soltanto di qualcosa. Da fenomeno assoluto e unitario la morte si è relativizzata, scomposta e frammentata nelle sue cause, potenzialmente infinite. L’accento si è spostato sulla causa della morte, e sulla causa si può e si deve intervenire. Non si muore più perché si è mortali, ma per una causa specifica, individuale, definibile, isolabile. La morte perde così il suo statuto di naturalità e viene assorbita all’interno della sfera della malattia. La morte è stata professionalizzata: il medico prende il posto del prete e spesso da lui ci si attende il miracolo proiettando su di lui un alone di taumaturgo. La decostruzione della morte ha significato la medicalizzazione della morte e degli individui «nutrendo la loro speranza di prolungare eternamente la loro esistenza» (Zygmunt Bauman). Nel post mortale la morte è semplicemente l’ultima malattia. Che impegna la scienza, la medicina, la tecnologia, la politica (divenuta sempre più biopolitica) e l’economia in una sfida di portata epocale.
La lotta contro la fragilità e il limite insiti nel vivere e visibilizzati nel corpo si esercita anche nei confronti della vecchiaia. Questa è colta come malattia – dunque potenzialmente guaribile – che impegna una quantità di discipline nel tentativo di ridare attualità al mito dell’eterna giovinezza: che farsene, infatti, di una vecchiaia e di una decrepitezza interminabili? «Un numero crescente di scienze e pseudoscienze si occupano specificamente del processo di invecchiamento e della morte: geriatria, gerontologia, tanatologia, tecniche di ibernazione, “immortalismo”. Molte altre, in particolare la genetica, l’ingegneria genetica e la medicina sociale, sono impegnate nella lotta per mitigare o eliminare le offese del tempo – una lotta particolarmente cara a una cultura al tramonto» (Christopher Lasch).

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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