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Le lacrime di fronte alla sofferenza

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28/03/2012

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura

In questo brano Luciano Manicardi ci invita a riflettere sul significato del pianto e delle lacrime, una manifestazione tipicamente umana che attraversa ogni tempo e ogni cultura. E lo fa sviluppando tre concetti di notevole interesse antropologico, prima ancora che spirituale.
Il primo è che «le lacrime sono parole non verbali», un «linguaggio del cuore» con il quale esprimiamo un bisogno, ma soprattutto cerchiamo di stabilire una relazione di ascolto e di solidarietà. Il secondo concetto è che, se le lacrime sono segno di dolore, sono già anche una «rielaborazione della sofferenza» che, spostando la tensione dalla psiche al corpo, alleviano l’angoscia e sciolgono il dolore. Il terzo, infine, illustra una possibile, suggestiva relazione fra lacrime e speranza, prendendo spunto da uno splendido passo di Sant’Agostino e sviluppandolo alla luce della riflessione di numerosi scrittori contemporanei. Se la speranza nasce da una visione velata del futuro, argomenta Manicardi, forse «questa visione velata è quella dell’occhio che piange, dell’occhio velato dalle lacrime»: contempla la morte come destino ultimo di tutti i viventi, e sogna una vita che tramonta; vede il dolore che devasta la vita, e anela al suo superamento; ricorda la sofferenza del passato, e cerca di non ripeterla.
«E se il proprio dell’occhio umano – conclude Manicardi – fosse il pianto, più che il vedere?». E’ un’intuizione che si fa suggestione: lasciamo a chi legge la libertà di approfondirla ed eventualmente confermarla, anche attraverso le proprie esperienze di dolore e di speranza. Certo, le lacrime sono anche un prodotto della biologia, ma non c’è dubbio che abbiano una densità semantica che trascende il fenomeno fisico e autorizza una speculazione originale e provocatoria. Sul piano etico, ricordiamo solo come per gli antichi Greci piangere non fosse mai motivo di pudore – come è invece nella cultura di oggi, che tende a comprimere determinati moti dell’anima – al punto che gli eroi del mito, per altri aspetti magnanimi e indomiti, non hanno remore ad abbandonarsi a un pianto dirotto di fronte alla morte e ai colpi avversi del Fato. La lezione di quelle antiche vicende è che il pianto non dovrebbe mai essere visto come un segno di debolezza, anche in una donna coraggiosa, o in un uomo solido: le lacrime sono «l’eloquenza discreta dell’anima», e di fronte ad esse tutti siamo chiamati al rispetto e all’ascolto.
Nel capitolo IV delle “Confessioni”, Agostino descrive l’angoscia che si impadronì di lui quando un suo amico morì a seguito di una malattia. «L’angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore. Ogni oggetto si cui posavo lo sguardo era morte… Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane… Io stesso ero divenuto per me un grande enigma… Soltanto le lacrime mi erano dolci e presero il posto del mio amico tra i conforti del mio spirito» (Conf. IV,4,9). Agostino si rivolge allora a Dio per chiedergli «come il pianto possa riuscire dolce agli infelici», constatando che «se non potessimo piangere alle tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Com’è allora che dall’amaro della vita cogliamo quel dolce frutto che sta nel gemere e nel piangere?» (Conf. IV,5,10).
Il pianto, questa capacità innata dell’uomo, è un linguaggio semanticamente polivalente che esprime angoscia e gioia, compassione e autocommiserazione, sincerità e falsità, amore e paura… Il pianto è un linguaggio, le lacrime sono parole non verbali, sono una forma di comunicazione. Interessante, da questo punto di vista, la tesi di chi ritiene che la vocalizzazione evolutivamente più antica sia il pianto di separazione: poiché i primi mammiferi erano nottambuli abitatori delle foreste, questo pianto serviva ai genitori per ritrovare la prole dispersa, e, più in generale, alla comunicazione interna al gruppo. Il pianto davanti a un’altra persona mira a suscitare una sua reazione, esprime una richiesta di attenzione. Col pianto cerchiamo di trasformare in sostegno la negatività degli altri: chi assiste al pianto altrui si sente colpito da tale esternazione di vulnerabilità e normalmente tende a farsi vicino, a consolare, a confortare. Le fragili e quasi evanescenti lacrime hanno un grande potere! Il pianto è un mezzo usato dagli umani per restare in contatto tra di loro. Lo stesso pianto infantile non esprime solo il bisogno che chiede di essere soddisfatto, ma tende anche a creare un legame tra il piccolo e i genitori.
Il pianto poi non sempre è di facile o univoca interpretazione: di fronte a chi piange spesso siamo in imbarazzo (e cerchiamo parole e, soprattutto, gesti, che siano adeguati alla pregnanza del linguaggio di pianto dell’altro) e tentiamo di interpretare le sue lacrime. Le lacrime svelano un aspetto dell’anima, e quasi la mettono a nudo. Esse sono l’eloquenza discreta dell’anima, il linguaggio del cuore. Sono la parte visibile, per quanto tremula e trasparente, del nostro desiderio. Esse uniscono mirabilmente interiorità ed esteriorità, corpo e anima: «Le lacrime consumano la loro vita fuori dal corpo, testimoniando al suo esterno la sua più autentica interiorità» [1]. Sono la visibilità dell’invisibile. Questa loro tipicità le rende un linguaggio spesso sentito come più autentico e profondo delle parole stesse: «Che sono mai le parole? Una lacrima le supera tutte in eloquenza [2]; «Grazie alle lacrime io posso vivere con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore empatico che riceve il messaggio “più vero”: quello del mio corpo e non già quello della mia lingua» [3]. Le lacrime ci dicono qualcosa sulla sapienza del corpo, esprimendo una dimensione della verità insita nel corpo che le parole e il discorso concettuale non sanno manifestare. Del resto, il pianto si verifica spesso quando meno siamo capaci di verbalizzare adeguatamente emozioni complesse e travolgenti: esso sa dar voce a una miscela di stati d’animo contrastanti.
Tuttavia, normalmente noi associamo il pianto al soffrire. Ma il pianto è anch’esso sofferenza, oppure è già reazione e perfino rielaborazione della sofferenza? Le parole di Agostino, a cui se ne potrebbero aggiungere infinite altre provenienti da tanti e diversi ambienti culturali e religiosi, esprimono bene il carattere misterioso del paese delle lacrime. Nascono nel dolore, ma ci fanno “sentire meglio”. Esprimono angoscia, ma producono anche un appagamento fisico. In verità esse, più ancora che ad uno sfogo, sono tese a un ri-orientamento delle emozioni: esse spostano la nostra attenzione dalla mente al corpo, e così sciolgono il dolore psicologico.
Ma il testo di Agostino dice qualcosa in più legando il pianto all’espressione della speranza: «Se non potessimo piangere alle tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza». Che rapporto vi può essere tra pianto e speranza? Un testo di Paolo ci consente di abbozzare una risposta.
Scrive l’Apostolo nella lettera ai Romani: «Ciò che si spera, se visto, non è più speranza: infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). La speranza spera l’invisibile, dunque l’eterno (2Cor 4,17-18). L’oggetto della speranza è sottratto al potere di chi spera, non gli è disponibile. La speranza non spera ciò che è razionalmente pre-vedibile, ma suppone un’assenza e un ignoto, un non possedere e un non sapere. La speranza è umile e povera, soprattutto è degli umili e dei poveri. In certo modo la speranza suppone anche un non vedere. Eppure la fiducia e la perseveranza che caratterizzano la speranza dicono che essa vede qualcosa. Forse vede l’invisibile, come Mosè che lasciò l’Egitto e senza paura e con saldezza fece il suo cammino «come se vedesse l’invisibile» (invisibilem tamquam videns). “Homo viator spe erectus”, recita un antico adagio: è la speranza che indica la via all’uomo, che lo guida, lo orienta nel cammino e che lo situa nella posizione eretta propria dell’uomo.
Ma che significa vedere l’invisibile? Forse bisogna chiedersi: come vede la speranza? Il filosofo Gabriel Marcel parla di una forma di visione velata: «Non si può certo dire che la speranza veda ciò che sarà; ma essa afferma come se vedesse; si direbbe ch’essa attinga la sua autorità da una forma di visione velata, ascosa, della quale non può godere, ma su cui può fare assegnamento» [4]. Una visione su cui si può fare assegnamento è quella fondata sulla memoria, e quella di cui non si può godere è quella del futuro che ancora ci sfugge. Forse questa visione velata è quella dell’occhio che piange, dell’occhio velato dalle lacrime. Vede la morte e invoca la resurrezione. Vede il dolore e anela la sua redenzione. Ricorda la sofferenza e opera in modo da non ripeterla. Ci si può chiedere: e se il proprio dell’occhio umano fosse il pianto, più che il vedere? Anche gli occhi del cieco sanno piangere. Le parole del filosofo Jacques Derrida sono commoventi: «Se le lacrime vengono agli occhi, se possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini… Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo» [5].
Gli occhi velati dalle lacrime vanno al di là del vedere e del sapere, e ci avvicinano «all’essenza delle cose: alla verità, almeno a quella del dolore e della speranza» [6]. Nel pianto, l’esperienza del dolore si può misteriosamente aprire alla dimensione della speranza.

Note dell'Autore

1) J.-L. Charvet, L’eloquenza delle lacrime, Medusa, Milano 2001, p. 56
2) August Wilhelm von Schlegel citato da T. Lutz, Storia delle lacrime, Aspetti naturali e culturali del pianto, Feltrinelli, Milano 2002, p. 39
3) R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, p. 160-161
4) G. Marcel, Homo viator, Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Roma 1967, pp. 64-65
5) J. Derrida, Memorie di cieco, Abscondita, Milano 2003, pp. 152-154
6) E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005, p. 114

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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