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Le esperienze di morte nella vita di Gesù

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02/02/2011

Liberamente tratto da:
Luciano Manicardi, L'umano soffrire, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2006, p. 125-130

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

La morte come fine delle relazioni: è questa l’efficace lettura che la spiritualità ebraica fa dell’evento ultimo dell’esistenza. Ma anche come sottrazione di salute e libertà, come minaccia alla pienezza di vita. In questo senso, sono tante le “morti” che possiamo incontrare nel corso dei giorni.
I Vangeli ci informano che Gesù non è stato esentato da questo cammino di dolore e di separazione: e come la sua passione è esemplare, per i credenti ma anche per i laici, di come si possa affrontare la violenza e l’arbitrio senza venir meno alle istanze dell’amore e della verità, così il suo comportamento nelle diverse occasioni di morte esistenziale – il lutto per amici e familiari, le disgrazie fortuite, sino al rinnegamento, al tradimento e alla persecuzione – può insegnarci come attraversare il dolore facendone un’occasione di comunione e umanizzazione, due esigenze etiche decisive per tutti.
Ai credenti, troppo spesso assorbiti da pratiche devozionali di dubbia ispirazione evangelica, può inoltre essere utile ricordare che per Cristo il luogo di discernimento per eccellenza della propria vocazione sono le Scritture: lì nascono in lui la coscienza della volontà di Dio – una volontà vita e di amore – e la consapevolezza che fare questa volontà significa non accettare la morte in sé, come una frettolosa e superficiale spiritualità vorrebbe sostenere, bensì accettare di percorrere la via dell’amore, per il Padre e per gli altri, anche a costo della morte.
Solo così al Getsemani – poco prima di essere arrestato, torturato e ucciso – Gesù potrà dire, come attesta Marco, «Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36) e, come riporta Matteo, «Non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39): piena adesione al “che cosa” e al “come”, ai valori da porsi e allo stile con cui perseguirli, in una perfetta e liberante unificazione del cuore.
Gesù ha incontrato la morte in diverse forme già durante la sua vita, e ha vissuto numerose situazioni di “morte nell’esistenza” che, anche se non coincidono con la morte fisica, tuttavia segnano una morte ugualmente reale e dolorosa. Per la Bibbia, infatti, la morte è l’evento dell’irrelazionalità e c’è morte là dove c’è fine di una relazione, mancanza di salute e libertà, dove la pienezza di vita viene minacciata o spezzata. Questi eventi di morte nella vita hanno influito sulla coscienza di Gesù di fronte alla sua morte e lo hanno preparato a morire, a vivere la sua morte davanti a Dio, a fare della sua morte un atto.
Solo l’uomo muore; l’animale perisce: non ha la morte come morte davanti a sé, né dietro di sé. Solo l’uomo sa di dover morire [1]. E questa coscienza può renderlo prigioniero della paura. La Lettera agli Ebrei afferma che il Figlio di Dio, con l’incarnazione, è venuto «a liberare quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,15). Per chi ha fede, la morte umana, a seguito della morte di Cristo, ha assunto una possibilità nuova di significato. E nelle parole e nei gesti di Gesù morente, il credente può trovare la ricapitolazione di tutto ciò di cui potrà avere bisogno negli ultimi momenti della sua esistenza. Ma vediamo come e dove Gesù ha incontrato le morte durante la sua vita [2].
È talmente essenziale la “morte del Signore” nella coscienza degli evangelisti e delle prime comunità cristiane che Matteo colloca la nascita di Gesù in un contesto di morte già decretata su di lui da Erode (Mt 2). La nascita a Betlemme e l’emigrazione in Egitto per fuggire la sentenza di morte già situano la vicenda di Gesù nella luce della morte futura sulla croce. Da subito la vita di Gesù è minacciata e ostacolata.
Gesù ha poi conosciuto la morte cruenta, per decapitazione, subita da Giovanni il battezzatore, suo maestro e guida (Mc 6,17-29). Da lui Gesù si fece “battezzare”, cioè immergere nel fiume Giordano, mostrando così di aderire alla predicazione escatologica ed etica del profeta. Se un discepolo non è da più del suo maestro, ciò che è avvenuto al maestro può avvenire anche al discepolo che ne segue le tracce. In effetti Giovanni, con la sua vita, con la traiettoria della sua esistenza e con la sua stessa morte, ha aperto la strada che anche Gesù percorrerà, ovviamente adempiendo una vocazione assolutamente unica e incomparabile.
Gesù ha incontrato il dolore straziante di una madre che piange il figlio morto (Lc 7,11-17), la fede e la dignità di Giairo, il padre della bambina dodicenne che muore (Mc 5,21-24.35-43), e soprattutto ha vissuto il personalissimo e lancinante dolore per la morte di Lazzaro, l’amico che egli conosceva bene e amava molto: «Gesù amava molto Marta, Maria e Lazzaro» (Gv 11,5). E quando fu di fronte al dolore e al pianto delle due sorelle, anch’egli «scoppiò in pianto» (Gv 11,35). E tra la gente che era presente ci fu chi seppe leggere bene il senso di quel pianto: «Vedi come lo amava» (Gv 11,36). Ma anche questa morte Gesù l’ha accostata nella fede nel Dio che ascolta la preghiera e può dar vita ai morti.
Gesù ha conosciuto anche le morti “anonime”, quelle riportate dai casi di cronaca: i Galilei che Pilato fece uccidere «mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici» (Lc 13,1), o i diciotto disgraziati su cui rovinò la torre di Siloe (Lc 13,4). Ed ha cercato di leggere nella fede queste morti, strappandole all’idea che una tale sorte fosse segno di peccato: Gesù non rende la vittima un colpevole.
Secondo molti Padri della Chiesa Gesù conobbe anche la morte del padre: Giuseppe. Questo però non è affermato dai vangeli, ma solo supposto a partire dal silenzio su Giuseppe e dalla sua “sparizione” durante il ministero pubblico di Gesù. Non è pertanto possibile dire nulla di sicuro su questo punto.
Invece è certo che la vita comune itinerante con il gruppo di discepoli che egli ha scelto e chiamato a vivere con sé per l’annuncio del Regno di Dio, si viene configurando, giorno dopo giorno, come spazio in cui Gesù è contraddetto, incompreso, lasciato solo, rinnegato, tradito. Uno dei discepoli lo consegna alle autorità che lo metteranno a morte. Il primo dei discepoli, quello a cui Gesù ha affidato il compito di confermare nella fede i fratelli e di essere “roccia” del gruppo, arriva a rinnegarlo. La comunità stessa di Gesù si vede traversata da gelosie, rivalità, desideri di potere e di affermazione, esclusivismo e intolleranza. Secondo la testimonianza di Matteo (27,3-10) la vicenda di Giuda, colui che consegnò Gesù, termina in un tragico suicidio (Mt 27,5). Insomma, anche lo spazio comunitario a cui Gesù ha dato vita, diviene luogo di esperienza di morte.
Gesù ha vissuto anche la sofferenza dovuta al contrasto con le autorità religiose del suo popolo, soprattutto con i sacerdoti, che mal tolleravano le parole e i gesti profetici di Gesù; ha sentito la diffidenza e l’ostilità del potere politico romano verso il gruppo di Galilei, suoi discepoli, che potevano essere sospettati di essere dei rivoltosi; ha sperimentato la condizione di marginalità all’interno del panorama del giudaismo del tempo, ma soprattutto ha patito la condanna da parte del Sinedrio, massima istituzione giudiziaria, il tribunale che emette le sentenze di Dio [3]. Gli scontri e le polemiche che gruppi avversari gli oppongono, contribuiscono a far sorgere in lui l’acuta coscienza del possibile esito violento della sua esistenza. Coscienza che traspare dagli annunci della sua passione e morte che Gesù pronuncia a misura che avanza nel suo ministero e si avvicina a Gerusalemme, “la città che uccide i profeti” (Lc 13,34).
La stessa lettura delle Scritture, luogo di discernimento della sua vocazione, lo porta a prendere coscienza della possibile fine tragica: i Salmi in cui parla il giusto che incontra ostilità e rigetto proprio per la sua giustizia (Sal 22); i canti che mostrano il Servo del Signore incontrare incomprensione, violenza, morte (Is 50,4-9; 53); il brano di Sapienza 2 che parla della morte vergognosa a cui gli empi vogliono condannare il giusto solo perché si mostra diverso da loro.
Il confronto con la morte acquista toni sempre più drammatici quando Gesù, dopo aver concluso la celebrazione pasquale, esce verso il Getsemani, il podere in cui spesso si recava per la preghiera personale [4]. Dopo il banchetto pasquale era usanza uscire all’aperto e gustare l’aspetto naturale della festa di Pasqua, quello di festa della primavera, che si aggiungeva a quello storico di memoriale della liberazione e della salvezza. Il gruppo dei discepoli è certamente abitato dal senso della gioia pasquale, ma anche traversato da una tensione spasmodica: l’annuncio del tradimento, il discorso con cui Gesù ha previsto lo sfaldarsi del gruppo comunitario («Tutti vi scandalizzerete»: Mc 14,27), le parole con cui ha preannunciato il dono della sua vita hanno ingenerato nel gruppo incertezza e angoscia. Gesù è triste: se anche affronta la morte nella preghiera e cercando di farne un evento di obbedienza a Dio, tuttavia è preso da paura nei confronti della morte. Sente il vuoto, la solitudine abissale, e chiede ai suoi discepoli più prossimi di stargli accanto, di essergli vicino: «Vegliate e pregate con me» (Mt 26,38). Spossato, Gesù incespica, viene meno e prega intensamente: «Abba, Padre, allontana da me questo calice» (Mc 14,36). Nella notte pasquale si bevevano quattro calici facendo memoria di quattro gesti di liberazione operati da Dio al tempo dell’esodo dall’Egitto, ma a Gesù è riservato un quinto calice, il calice dell’amarezza, il calice della morte. E anche in quella situazione drammatica Gesù si abbandona alla volontà di Dio: «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta» (Lc 22,47).
La notte di Pasqua è memoria della notte dell’esodo, che fu “notte di veglia” per Dio (Es 12,42) e diviene notte di veglia per Gesù stesso. Egli chiede anche ai suoi discepoli di vigilare, ma non ce la faranno. E arriva Giuda, il discepolo che tradisce con un bacio. Tradisce dicendogli le parole che il discepolo rivolgeva al maestro: «Pace a te mio maestro». E forse già qui muore Gesù: «Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’Uomo?» (Lc 22,48). La “morte nel bacio” era stata la morte di Mosè: egli morì – dice letteralmente Deuteronomio 34,5 – “sulla bocca di Dio”. E la tradizione ebraica ha interpretato quell’espressione come un bacio. Qui il bacio di Dio scompare dietro al bacio di Giuda, questo bacio stravolto nel suo significato di affetto e di dedizione. E la morte appare a Gesù sotto i tratti dell’abbandono dei suoi “amici”: «Tutti, abbandonandolo, fuggirono» (Mc 14,50).
E perfino sulla croce Gesù grida l’abbandono di Dio stesso: «Perché mi hai abbandonato?». Ma egli resta legato e attaccato al Dio che l’abbandona. E sulla sua fede, che anticipa la resurrezione, potrà ricostruirsi il tessuto sfilacciato del gruppo dei discepoli e potrà ricostruirsi la loro fragile fede.

Note

1) Cf. E. Jüngel, Morte, Queriniana, Brescia 1972
2) X. L.-Dufour, Face à la mort. Jésus et Paul, Seuil, Paris 1979
3) J. Massonet, «Sanhédrin», in Supplément au Dictionnaire de la Bible, XI, Letouzey & Ané, Paris 1986, coll. 1353-1413
4) H. Schuermann, Comment Jésus a-t-il véçu sa mort?, Cerf, Paris 1977; M. Bastin, Jésus devant sa Passion, Cerf, Paris 1976

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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