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La vita genera la vita, senza fine

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25/06/2014

Tratto da:
François Cheng, Cinque meditazioni sulla morte (ovvero sulla vita), Bollati Boringhieri, 2014

Selezione e recensione di Pino Pignatta

Guida alla lettura

Il titolo del libro sembra non lasciare spazio a speculazioni non nichilistiche aperte alla speranza: “Cinque meditazioni sulla morte”. Tuttavia, l’autore si affretta a precisare subito dopo “ovvero sulla vita”: queste riflessioni sono meditate per celebrare il trionfo della vita. Chi le ha scritte è François Cheng, 85 anni, nato in Cina nella provincia di Shandong, ma francese di adozione, soprattutto culturale, poeta, saggista, romanziere, docente, primo asiatico in assoluto a entrare a far parte dell’Académie Française. Non solo: è anche calligrafo. La massima che campeggia sulla copertina del libro, scritta con gli ideogrammi del cinese mandarino, è stata calligrafata dallo stesso Cheng, e afferma: «La vita genera la vita, senza fine». Dunque, come ampiamente confermato addentrandosi nel libro, con la scelta di questa massima l’autore sembra allontanarsi dalla filosofia terribile del nichilismo europeo, secondo la quale proveniamo dal nulla e ritorneremo nel nulla, per avvicinarsi invece, attraverso il contributo della tradizione orientale, più alle teorie di uno dei più grandi pensatori italiani, Emanuele Severino, secondo il quale noi tutti siamo “eterni”, perché non può esserci un momento in cui non siamo stati, e non può esserci un tempo in cui non saremo più.
Dunque, in questo saggio che inevitabilmente sposa le tradizioni del pensiero occidentale e orientali, l’Accademico di Francia François Cheng indaga sul mistero della morte e della vita, in un’osmosi nella quale entrambe si compenetrano e si influenzano, e che alla fine conduce alla riflessioni in versi della Quinta meditazione: «La morte non è la nostra fine, perché è più grande di noi. E’ il nostro desiderio, che raggiunge quello dell’Inizio, desiderio di Vita… Fedele compagna, la morte ci costringe a scavare in noi senza tregua, per accogliervi sogno e memoria, a scavare sempre in noi, il tunnel che conduce all’aria aperta… Essa non è la nostra fine. Fissando il limite, ci indica l’estrema esigenza della vita, quella che dona, eleva, eccede e va oltre».
L’autore di questo libro indaga sul mistero massimo setacciando la sua esperienza di vita, offrendoci il distillato di un’intera esistenza. In più qui c’è lo spessore culturale arricchito da emozioni particolari e non comuni, essendosi Cheng dovuto confrontare sin da giovane, da un lato, con la bellezza della natura, per avere frequentato quell’incredibile luogo che è il Monte Lu, nella sua provincia natale, scrigno di paesaggi incantati; e dall’altro con il dolore della guerra e della ferocia, per essere stato spettatore del massacro di Nanchino, perpetrato dall’armata giapponese nel 1937. Bellezza e dolore. Morte e vita. Cheng ci rende partecipi delle sue riflessioni sulle questioni esistenziali, in un linguaggio per nulla accademico, ma con una prosa essenziale, agile, forse grazie alla semplicità e immediatezza del pensiero cinese e taoista.
Dalla prima Meditazione
(…) Diciamo subito, senza ambagi, che appartengo alla schiera di coloro che si pongono decisamente nell’ordine della vita. Per noi, la vita non è affatto un epifenomeno nella straordinaria avventura dell’universo. Non ci accontentiamo della visione secondo cui l’universo, non essendo che materia, si sarebbe prodotto senza saperlo, ignorando completamente la propria esistenza nel corso di questi miliardi di anni… Personalmente ho una ragione in più per unirmi a questi avvocati della vita: vengo da quello che una volta si chiamava “Terzo Mondo”. Allora formavamo la tribù dei dannati, degli eterni crepa-corpo, crepa-cuore, portatori di sofferenze e di lutti; eravamo così disgraziati che, per noi, la minima briciola di vita era un dono insperato. Eravamo miseri, ma avevamo qualche motivo per consacrare alla vita un infinito amore: avevamo bevuto tutta l’acqua amara dell’esistenza; ogni tanto, ne avevamo gustato anche gli inusitati sapori. Noialtri, che rifiutiamo ogni forma di nichilismo, lo confessiamo: diciamo “sì” all’ordine della vita. E così, in un certo senso, indipendentemente dalla nostra educazione e dalle nostre convinzioni, ci ricolleghiamo all’intuizione del Tao. La Via, il gigantesco cammino orientato dell’universo vivente, ci dimostra che un Soffio di vita, a partire dal Niente, ha fatto avvenire il Tutto (...).

Dalla seconda Meditazione
(...) Invece di limitarci a fissare la morte da questo lato della vita, potremmo considerare la vita a partire dalla nostra morte, non intesa come una fine assurda ma come il frutto del nostro essere. Perché in un mondo aleatorio, irto di imprevisti, abbiamo un’unica, assoluta certezza: un giorno, tutti dovremo morire. Eppure, non abbiamo più niente da dire di fronte a questo assoluto? Non lo credo, per la semplice ragione che, a causa della vita, la morte non ci appare affatto come un assoluto. In realtà, se la vita non esistesse non ci sarebbe la morte. Visto che la morte è la cessazione di un certo stato di vita, non può essere all’origine di questo “assoluto”: esso deve essere stato imposto da qualcos’altro di ancora più assoluto, per così dire, ovvero da ciò attraverso cui è avvenuta la vita. Questa Origine ha imposto la morte come una delle sue leggi e, perciò, la morte stessa è diventata una delle prove dell’assoluto della vita. Non possiamo pensare alla vita senza pensare alla morte, così come non possiamo pensare alla morte senza pensare alla vita. Ma in questo binomio indivisibile è la vita ad avere la preminenza. Sarà la morte ad avere l’ultima parola? Non è affatto certo (...).

Dalla terza Meditazione
(...) A mano a mano che si avanza con l’età, l’anima interiorizza sempre più tutto ciò che il corpo porta con sé in termini di desideri e di esperienza. Il frutto dell’anima assorbe dolori e gioie, lacrime e sangue. L’artista non fa eccezione. Più si avvicina alla fine, più la sua creazione diventa libera e spoglia del superfluo. Pensiamo all’ultima Pietà di Michelangelo, agli ultimi ritratti di Tiziano e di Rembrandt, alle ultime visioni di Fan Kuan, di Cézanne. Alla Divina Commedia di Dante, alla Fedra di Racine, alle ultime poesie di Du Fu, di Wang Wei, di Tagore. Alle ultime Cantate di Bach, agli ultimi Quartetti di Beethoven e alle ultime Sonate di Schubert, ai Requiem di Mozart e di Fauré… Ricordo anche i quattro ultimi Lieder di Richard Strauss, grida di nostalgia splendide come un tramonto. D’altronde, ognuno di noi sa quale musica vorrebbe udire nel momento della morte (...).

Dalla quarta Meditazione
Ora vorrei rendervi partecipi di un sentimento personale che ho provato molte volte. Considerata la mia età, mi è capitato spesso di vegliare delle persone care sul letto di morte. Persone di cui conoscevo intimamente la voce, lo sguardo, la sensibilità, le passioni, i fremiti e i gemiti, le risa e i pianti. Ogni volta rimanevo colpito dalla differenza tra l’essere unico della persona e il corpo inerte che giaceva sotto i miei occhi. Era indubbio: quel corpo improvvisamente immobile apparteneva a un parente, a un amico; ma sapevo che il suo essere non si riduceva a quello, che era già incredibilmente liberato, unificato, altrove. Era già presente in altro modo, e in altro modo più presente. Pensavo allora a Cocteau, che, davanti al pomposo corteo funebre con la bara di Giraudoux, folgorato da un’improvvisa intuizione, aveva detto agli amici: «Ma lui non è qui, andiamocene!». (....) E invece no: al di là del comico e del tragico della nostra precarietà, molto al di là, c’è il fatto solenne di essere, il fatto sacro di essere. Più niente può far sì che quell’uomo, quell’anima, non siano stati. Niente può più cancellare ciò che costituiva la sua unicità. Ricordiamo la frase di Jankélévitch: «Se la vita è effimera, il fatto di avere vissuto una vita effimera è un fatto eterno». (...)

Dalla quinta Meditazione
Gli alberi dell’infinito dolore,
le nubi dell’infinita gioia,
talora si scambiano un segno di vita,
al limitare della vasta estate.
Li traversano le allodole
Senza nulla cogliere delle loro parole,
solo una sorgente le serberà
per dar da bere ai morti.
Che dall’altro regno torni a noi
quel che credevamo perduto
,
che tornino quelli che si erano allontanati senza dir nulla,
che il loro grido muto sia il nostro pane quotidiano,
che si ricomponga l’aspra ferita:
morso e rimorso sono tutt’uno,
dolore e dolciore si sostengono l’un l’altro.

Biografia

François Cheng, nato in Cina nel 1929, vive in Francia dal 1949 e dal 1977 ha adottato la lingua francese per i suoi scritti. Figura poliedrica di poeta, saggista, romanziere, docente, calligrafo e traduttore (dal cinese in francese e viceversa: ha tradotto in cinese i surrealisti, Baudelaire, Rimbaud, Char), è stato il primo asiatico a essere eletto all’Académie Française (2002).
Scrive di sé nella prima Meditazione del suo ultimo libro: «... appartengo a due culture che si collocano alle due estremità del continente eurasiatico, abbastanza diverse tra loro per farmi sentire letteralmente diviso in due, ma anche per fecondarmi, quando riesco ad attenermi alle parti migliori dell’una e dell’altra…».
Tra i suoi libri: le raccolte poetiche “De l’arbre et du rocher” (1989) e “Cantos toscans” (1999); i saggi “L’écriture poétique chinoise” (1977), “L’espace du rêve. Mille ans de peinture chinoise” (1980), “Et le souffle devient signe. Ma quête du vrai et du beau par la calligraphie” (2001); i romanzi “L’éternité n’est pas de trop” (2002) e “Quand reviennent les âmes errantes” (2012). In traduzione italiana: “Nell’eterno, l’amore” (2005), “Il dialogo” (2003) e “Shitao 1642-1707. Il sapore del mondo” (1999). Presso Bollati Boringhieri ha pubblicato anche “Cinque meditazioni sulla bellezza” (2007).
Parole chiave di questo articolo
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