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La vita fugge

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01/06/2011

in: Francesco Petrarca, Canzoniere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006

Guida alla lettura

In letteratura, così come in generale nella storia della cultura, non bisogna mai esagerare con le similitudini, perché – nella loro inevitabile brevità – rischiano di farci commettere gravi errori di prospettiva. Eppure è difficile non pensare a questo celeberrimo sonetto di Petrarca come a una stupefacente anticipazione dell’Esistenzialismo: vero manifesto “ante litteram” di quella che sarà, secoli dopo, la filosofia del pessimismo radicale e dell’assurdo.
Scritto dopo la morte dell’amata Laura (nonostante il rimpianto di lei, nell’ultima terzina, sia con felice intuizione poetica proiettato nel futuro), il sonetto esprime con ineguagliata eleganza il progressivo disincanto del poeta di fronte alla vita: la caducità delle cose gli appare in tutta la sua crudele evidenza e nulla – passato, presente, futuro – gli è più di consolazione. Gli struggenti versi finali esprimono con infinita desolazione questo senso di smarrimento, pur nella tenerezza del ricordo dei “bei lumi” della donna perduta.
La complessa allegoria della nave con gli alberi sfasciati dal vento, attesa in porto dalla tempesta, esprime il gusto del tempo. Ma la limpidezza delle parole e dei suoni, il respiro spezzato dall’asindeto, l’arditezza delle immagini (si pensi solo alla libertà poetica con cui i lumi spenti di Laura richiamano l’assenza di stelle sul mare in tempesta) esercitano ancora oggi un fascino straordinario, davvero capace di assumere e riscattare il nostro umanissimo dolore di vivere.
La vita fugge e non s’arresta un’ora,
e la morte vien dietro a gran giornate,
e le cose presenti, e le passate
mi dànno guerra, e le future ancora;
e ’l rimembrare e l’aspettar m’accora
or quinci or quindi, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ ho di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi pensier fòra.
Tornami avanti s’alcun dolce mai
ebbe ’l cor tristo; e poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i venti;
veggio fortuna in porto e stanco omai
il mio nocchier, e rotte arbore e sarte,
e i lumi bei, che mirar soglio, spenti.


(Versione in lingua corrente – A cura della nostra redazione)

La vita fugge e non s’arresta un’ora, e la morte mi rincorre velocemente, e gli avvenimenti presenti, e quelli passati, mi danno angoscia, e così quelli futuri; e il ricordare e l’aspettare mi rattristano ugualmente, sí che davvero, se non avessi pietà di me stesso, mi sarei già tolto la vita.
Guardando al passato, mi chiedo se mai alcuna dolcezza provò l’afflitto mio cuore; e poi, guardando il futuro, vedo i venti contrari al mio navigare; vedo tempesta in porto, e stanco ormai il mio timoniere, e rotti alberi e sartiame, e i begli occhi, che sono solito ammirare, spenti.

Biografia

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304. Il padre, ser Pietro di ser Parenzo (soprannominato ser Petracco da cui, attraverso ulteriori trasformazioni di gusto latineggiante, il cognome del poeta), è notaio e guelfo bianco. Nel 1311 la famiglia si trasferisce nei pressi di Avignone, in Francia, al seguito della corte papale.
Malgrado le precoci inclinazioni letterarie, il padre avvia Francesco agli studi giuridici, prima a Montpellier e poi a Bologna. Nel 1326 il padre muore e il giovane, rientrato in Provenza per riprendere gli amati studi classici, incontra Laura e se ne innamora.
Verso il 1330, Petrarca entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Appoggiato dall’illustre famiglia romana, compie numerosi viaggi in Europa, durante i quali approfondisce la propria formazione culturale classica e patristica, scoprendo e ricopiando codici antichi.
Nel 1337, tornato in Provenza, si ritira a Valchiusa (oggi Fontaine-de-Vaucluse), ove dimorerà, pur con numerose e lunghe interruzioni, sino al 1353, componendovi molte delle sue opere, in italiano e in latino. Nel 1340, il Senato di Roma lo cinge in Campidoglio della corona poetica. Fra il 1342 e il 1347 riprende i viaggi in Francia e in Italia, continuando a scrivere ma ricoprendo anche numerosi incarichi politici. Il 19 maggio del 1348 apprende a Parma della morte prematura di Laura, uccisa dalla peste così come gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna, Francesco degli Albizzi.
Nel 1953 rientra definitivamente in Italia, presso la corte milanese dei Visconti, per i quali sarà ambasciatore a Venezia, Praga e Parigi. Questa intensa attività non gli impedisce però di godere di lunghi periodi di tranquillità, in città e nella campagna circostante, per attendere a nuovi lavori letterari.
Nel 1362, scoppiata nuovamente la peste, lascia Milano e si reca prima a Venezia, poi a Padova: ospite di Francesco da Carrara, signore della città, dimora spesso anche ad Arquà, sui colli Euganei, in una villetta che egli stesso descriverà come “piccola e graziosa, circondata da un uliveto e da una vigna”. E proprio ad Arquà muore improvvisamente nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374: si narrerà che sia stato trovato sereno, con il capo chino su un volume di Virgilio, il poeta più amato.
Il “Canzoniere”, la sua opera più famosa, è una raccolta di 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, selezionati da Petrarca stesso fra la sua vastissima produzione. La maggior parte delle composizioni è dedicata all’amore per Laura, e riflette una tensione straordinaria dal punto di vista umano, poetico e culturale: da un lato, infatti, la donna è cantata e vagheggiata con forti accenti sensuali, ispirati alla lirica italiana e provenzale dei secoli XII e XIII; dall’altro, specialmente dopo la morte della giovane, prevale di lei la visione stilnovistica e poi dantesca della “donna-angelo”, ricolma di ogni virtù, e per tanto fonte di conforto e tramite verso Dio.
Parole chiave di questo articolo
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