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La tristezza, via di umanizzazione

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25/02/2015

Tratto da:
Enzo Bianchi, La bisaccia del mendicante, Jesus, febbraio 2015

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo breve e provocatorio articolo, Enzo Bianchi illustra i benefici di un sentimento che, di solito, cerchiamo di evitare con ogni cura: la tristezza. Il dover essere allegri, ad ogni costo, è certamente un imperativo della nostra epoca, e Bianchi lo sottolinea con chiarezza. Eppure la tristezza, una giusta tristezza, contiene tesori inattesi e imprevedibili:
- ci insegna a riconoscere ciò che non è più ma che ci ha resi felici, alimentando il nostro cuore e la nostra intelligenza di buoni ricordi;
- ci aiuta a divenire consapevoli delle nostre colpe, ammaestrandoci quindi a distinguere il bene dal male;
- ci rende umili, perché attesta che nella vita ci manca qualcosa e, al tempo stesso, «ci rende disponibili a incontri non previsti», chiamandoci fuori dalla pericolosa cittadella dell’autosufficienza.
La tristezza, dunque, può rivelarsi «un sentimento necessario per vivere in pienezza e per compiere un cammino di umanizzazione»: dunque la tristezza come veicolo di sapienza, secondo quanto insegna la storia del principe Gautama, il futuro Buddha. Anche Gesù, nei Vangeli, ci offre una visione nuova della tristezza quando afferma: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati» (Mt 5,4), «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6) e «Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21). In questo caso, la tristezza e il pianto esprimono l’esigenza di un mondo più giusto, l’aspirazione a ciò che non è ancora e desideriamo con tutto il cuore, e che nella prospettiva della fede in Cristo sarà finalmente realizzato. L’importante, sottolinea Bianchi, è che la tristezza «non diventi un inquilino stabile nel nostro cuore», altrimenti rischia di paralizzarci e di condurci all’acedia, la «cattiva tristezza» accompagnata dall’indifferenza alla bellezza e ai colori della vita.
Bianchi conclude citando un salmo che forse, per la mentalità di noi moderni, suona eccessivamente ottimistico: «Se alla sera è ospite la tristezza, al mattino ecco grida di gioia». E se la tristezza, nonostante tutto, non se ne va dal nostro cuore, o dal cuore di chi ci sta vicino? Ecco l’importanza cruciale del saper chiedere aiuto e dell’attenzione ai sentimenti degli altri, della reciproca compassione.
Oggi siamo quasi tutti portati a pensare che la tristezza sia un sentimento negativo, un’esperienza da rimuovere, un’inquilina da scacciare. Soggiacciamo all’imperativo: «Non bisogna essere tristi!».
Ma è proprio vero che la tristezza debba sempre essere combattuta e negata? Non può essere anche un sentimento necessario per vivere in pienezza e per compiere, attraversandola, un cammino di umanizzazione? Vivere senza mai conoscere la tristezza sarebbe un impoverimento: saremmo privati di un’esperienza che può aiutarci a vedere la realtà diversamente e con più chiarezza, a vivere la nostalgia, il ricordo del passato, nella dolcezza, nell’accettazione di ciò che non è più ma che è stato bello e ci ha segnati per sempre.
Per non essere tristi occorrerebbe vivere in una prigione dorata? La leggenda narra che il padre di Gautama, volendo che suo figlio non conoscesse il dolore, fece recintare lo splendido giardino della sua reggia, impedendo così al figlio di uscire e di conoscere il mondo. Le ragioni per essere tristi stavano infatti fuori dal giardino, pensava il padre. Un giorno però Gautama riuscì a uscire e incontrò un malato, un vecchio decrepito e un morto. Conobbe la tristezza, ma quella fu la condizione attraverso la quale poté cercare l’illuminazione e diventare il Buddha.
La tristezza nasce da realtà umanissime: la mancanza, la sofferenza, la separazione, la morte, il male, ma queste fanno parte della vita e non è possibile rimuoverle, se non aderendo a delle illusioni. E’ però decisivo che la tristezza originata dai nostri incontri e dalle nostre consapevolezze non diventi un inquilino stabile nel nostro cuore, non finisca per possederlo, occupandolo interamente. Se questo avviene, allora la tristezza ci oscura lo sguardo del cuore e noi non percepiamo più la luce di ogni giorno, il volto che ci appare in ogni incontro, la bellezza che, sempre elusiva, vince la bruttezza. In questo caso la tristezza diventa sofferenza, finanche disperazione, ma più spesso acedia: l’acedia è la cattiva tristezza accompagnata dalla noia e ha come segno la mancanza di lacrime. Nella tristezza invece, si può anche piangere, e le lacrime sono già apertura alla consolazione.
Vi è dunque – oserei dire – una tristezza da accogliere e custodire come un frutto che nasce dalla nostra coscienza quando diventiamo consapevoli di aver fatto il male e contraddetto il bene, tristezza a causa delle nostre colpe. Non dobbiamo temere questi sentimenti, perché necessari al nostro discernimento del bene e del male, al nostro vivere secondo un’etica assolutamente necessaria alla convivenza. Bonjour tristesse! Lo possiamo dire quando la tristezza si affaccia come malinconia, nostalgia, turbamento. In questi casi siamo sorpresi dalla tristezza che scende nei nostri cuori e si fa percepire in certe ore silenziose e quiete del giorno: quando siamo soli al tramonto («Sai… quando si è molto tristi si amano i tramonti», dice il Piccolo principe), quando ci sentiamo avvolti dalla penombra e indotti a pensare, proviamo questo dolce venir meno delle pulsioni che ci eccitano.
Radiosa tristezza, la chiamano i Padri del deserto, che rende il nostro cuore umile e non altero, un cuore che non va in cerca di cose grandi (cf. Sal 131,1) ma che sa discernere il limite e la stessa morte che sta dietro a ogni creatura che ci rallegra. La musica, sì, solo la musica sa narrare pienamente la tristezza: penso al “rebetiko” suonato e cantato nelle taverne della Grecia; penso al flamenco, via privilegiata dell’espressione della tristezza, a volte persino tragica; ascolto i Notturni di Chopin…
La tristezza attesta che ci manca qualcosa, ci fa conoscere incertezza e insicurezza, ma ci rende disponibili a incontri non previsti. Il salmo dice che «se alla sera è ospite la tristezza, al mattino ecco grida di gioia» (cf. Sal 30,6). Dunque, buongiorno tristezza!

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
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