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L'essere umano e Dio di fronte alla violenza – Parte 2

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04/06/2014

Tratto da:
André Wénin, Dalla violenza alla speranza, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2005, p. 79-82

Guida alla lettura

Eccoci alla seconda parte della riflessione di André Wénin, teologo e biblista belga, sulla violenza presente nelle pagine della Bibbia: una violenza che è fonte di grave imbarazzo per i credenti e che sovente viene espunta dalle letture liturgiche e dai contenuti dell’insegnamento religioso. Un racconto come quello di Giuseppe e i suoi fratelli, che Wénin qui esamina, ci fa invece capire come occorra prestare estrema attenzione a questi antichi racconti, anche quando ci mettono a disagio, perché hanno molto da insegnarci su noi stessi e le nostre relazioni.
La vicenda è nota: Giuseppe suscita l’invidia dei fratelli, che lo aggrediscono e lo vendono a una carovana di mercanti, fingendo che sia stato ucciso da un animale selvatico e mentendo al padre Giacobbe circa la sua sorte. Un racconto del genere, spiega Wénin, è istruttivo per due motivi:
- insegna alcune verità profonde sulla dinamica dei conflitti interpersonali e in particolare familiari, mostrando come la violenza si generi a poco a poco, soprattutto dal non detto, e come tutti – nella misura in cui cercano di liberarsi di un’ingiustizia scaricandola sulle spalle degli altri – siano al contempo vittime e carnefici, in un circolo vizioso in cui una «parola giusta» diventa sempre più difficile;
- spiega come le pagine bibliche sulla violenza, lungi dal disorientare le nostre aspettative rispetto al testo sacro, possano «alimentare un lavoro di esplorazione e di comprensione» del male che governa le azioni umane.
Infine, la lettura di Wénin ci offre un insegnamento importante a livello di metodo esegetico: bisogna infatti imparare a soppesare ogni parola del racconto biblico e a guardarsi da certe letture devote e schematiche – ben attestate nella catechesi – secondo cui Giuseppe sarebbe il “buono” della situazione e i fratelli i “cattivi”. La realtà è molto meno comoda, e più complessa: in questa storia «ognuno fa violenza all’altro, apparentemente con delle buone ragioni per farlo» e l’assenza di Dio lascia agli uomini piena libertà di scelta, con le relative conseguenze, «perché l’essere umano impari anche dai suoi errori e dalla sofferenza che generano».
Prendiamo una storia relativamente conosciuta, come quella di “Giuseppe venduto dai fratelli” (Genesi 37). Il racconto narra un conflitto familiare tutto sommato banale, con i soliti elementi: preferenze reali o immaginarie, insensibilità all’altro, difficoltà di comunicazione, provocazione più o meno sottile, invidia, gelosia e odio. Quando si esamina il racconto da vicino, ci si accorge che tutti i personaggi sono coinvolti nella violenza, protagonisti e vittime allo stesso tempo. E’ stato lo stesso Giuseppe, che sarà spogliato della sua tunica e gettato in una buca dai fratelli, a cominciare: ha provocato i fratelli diffondendo calunnie sul loro conto, continuando poi con il racconto dei suoi sogni di grandezza in cui gli si prosternavano davanti. Quanto al padre Giacobbe – straziato nell’apprendere, attraverso una sottile menzogna dei fratelli, la scomparsa di Giuseppe, il figlio preferito – non è forse stato lui a provocare gli altri suoi figli ostentando la predilezione per il fratello più piccolo? Se dunque i fratelli maggiori sprofondano nell’odio, nella gelosia e nella violenza, non è senza motivo: dopo tutto sono i primi ad aver subito da parte degli altri delle ingiustizie vissute come aggressioni.
Questo racconto fa dunque vedere come la violenza cominci in forma nascosta o appena visibile. Essa si insinua di soppiatto in un sguardo, un atteggiamento, delle parole; non si versa sangue, ma il cuore è ferito. Solo la vittima conosce la violenza che in tal modo le viene fatta, ma in tali condizioni diventa difficile una parola giusta. Allora a poco a poco il clima si avvelena finché la violenza assume una forma visibile, brutale e odiosa, senza proporzione con le “leggere” violenze che, all’inizio, hanno fatto male senza che i protagonisti se ne accorgessero o vi facessero caso. Perché gli autori di quelle prime violenze non necessariamente avevano coscienza del male che stavano compiendo, coinvolti a loro volta in situazioni difficili. Se Giacobbe preferisce Giuseppe – spiega il testo – è perché è il figlio della sua vecchiaia, il figlio a lungo atteso dalla donna amata e ora deceduta. Quindi è del tutto comprensibile che l’anziano trasferisca il suo affetto sul figlio di lei, anche se si può subito riscontrare quanto questa preferenza ferisca gli altri. Quanto a Giuseppe, in un primo tempo privato della stima dei fratelli, cerca una forma di rivincita; successivamente, in trappola tra l’amore del padre e l’odio dei fratelli, fa quel che può per uscirne. E se è comprensibile il comportamento del giovane, non si può fare a meno di constatare come quello che egli fa accentui ulteriormente l’odio degli altri nei suoi confronti.
In questa storia, quindi, ognuno fa violenza all’altro, apparentemente con delle buone ragioni per farlo; e ciascuno subisce la violenza altrui, chiedendosi a che cosa deve il fatto di dover conoscere in questo modo un male che non gli è dovuto. Perché, in mancanza, di parole adeguate, regna l’incomprensione. Ciascuno è chiuso in se stesso, senza accorgersi – senza voler vedere, probabilmente – che il suo tentativo di uscire dal proprio problema è appunto ciò che fa male all’altro. Quindi, per assurdo, il racconto mostra che non ci si può disfare della propria difficoltà liberandosi di un peso per caricarlo sugli altri: tale modo di agire è conseguenza di un accecamento e non fa che aumentare il male e l’infelicità. Il modo sobrio e distaccato di raccontare la storia – senza esprimere giudizi sulle azioni, ma mostrandone la concatenazione che causa l’infelicità di tutti – permette al lettore di osservare tutto questo, e nel contempo di constatare anche l’assenza di Dio, che lascia agli uomini piena libertà di scelta, con le relative conseguenze, forse proprio perché l’essere umano impari anche dai suoi errori e dalla sofferenza che generano. E’ quanto mostrerà il seguito della storia in cui Giuseppe offrirà ai fratelli la possibilità di fare un cammino che li condurrà a un’autentica fraternità.
Un racconto di questo tipo corrisponde pienamente alla realtà umana e la racconta in modo stilizzato. Nel far questo, offre materiale per l’osservazione, la riflessione, il dibattito, proprio sulla violenza che vi si dispiega, e che si può seguire dalle origine nascoste fino alle sue conseguenze mortifere, passando attraverso le sinuosità che a poco a poco le fanno prendere corpo. Colui che si dedica a un lavoro di questo tipo constaterà ben presto di essere molto più coinvolto di quanto non avesse creduto in questa storia, che pure apparentemente è così estranea al suo mondo. Quella che il racconto riflette è proprio la sua esistenza e la offre alla sua vista come in uno specchio. Insieme a tanti altri racconti biblici che presentano ogni sorta di violenze umane, questa pagina può alimentare un lavoro di esplorazione e di comprensione della violenza, compito cruciale quando si intuisce come la violenza nasce e si dispiega favorita da un accecamento su ciò che è realmente in gioco nelle situazioni umane più quotidiane. Anche altri testi biblici possono prestarsi a un lavoro del genere: così, per esempio, alcune leggi che mirano a contenere la violenza per permettere una vita in società; gli oracoli profetici che stigmatizzano la violenza per denunciarla e proporre altre vie; alcuni salmi che permettono di immedesimarsi nei sentimenti della vittima o evocano il suo modo di percepire la cattiveria che subisce.

Il racconto biblico (Genesi 37)

Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Cànaan.
Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì a loro padre i pettegolezzi sul loro conto.
Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. I suoi fratelli, vedendo che loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.
Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancor di più. Disse dunque loro: «Ascoltate questo sogno che ho fatto. Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno e si prostrarono davanti al mio». Gli dissero i suoi fratelli: «Vorrai forse regnare su di noi o ci vorrai dominare?». Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole.
Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò al padre e ai fratelli e disse: «Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me». Lo narrò dunque al padre e ai fratelli e il padre lo rimproverò e gli disse: «Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io e tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?». I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma suo padre tenne in mente la cosa.
I suoi fratelli andarono a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. Israele disse a Giuseppe: «Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro». Gli rispose: «Eccomi!». Gli disse: «Va a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a riferirmi». Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. Mentre egli andava errando per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: «Che cerchi?». Rispose: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare». Quell’uomo disse: «Hanno tolto le tende di qui, infatti li ho sentiti dire: andiamo a Dotan». Allora Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan.
Essi lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire. Si dissero l’un l’altro: «Ecco, il sognatore arriva! Forza, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: una bestia feroce l’ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!». Ma Ruben sentì e volle salvarlo dalle loro mani, dicendo: «Non togliamogli la vita». Poi disse loro: «Non versate il sangue, gettatelo in questa cisterna che è nel deserto, ma non colpitelo con la vostra mano»; egli intendeva salvarlo ricondurlo a suo padre.
Quando Giuseppe fu arrivato presso i fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica dalle lunghe maniche ch’egli indossava, poi lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua. Poi sedettero per prendere cibo. Quando ecco, alzando gli occhi, videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Galaad, con i cammelli carichi di resina, di balsamo e di laudano, che stavano portando in Egitto.
Allora Giuda disse ai fratelli: «Che guadagno c’è ad uccidere nostro fratello e a nasconderne il sangue? Su, vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contro di lui, perché è nostro fratello e nostra carne». I suoi fratelli lo ascoltarono. Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto.
Quando Ruben ritornò alla cisterna, Giuseppe non c’era più. Allora si stracciò le vesti, tornò dai fratelli e disse: «Il ragazzo non c’è più, dove andrò io?». Presero allora la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono al padre la tunica dalle lunghe maniche con queste parole: «L’abbiamo trovata: riscontra se è o no la tunica di tuo figlio». Egli la riconobbe e disse: «E’ la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l’ha divorato. Giuseppe è stato sbranato». Giacobbe si stracciò le vesti, si pose un cilicio attorno ai fianchi e fece lutto sul figlio per molti giorni. Tutti i figli e le figlie vennero a consolarlo, ma egli non volle essere consolato e diceva: «No, io voglio scendere in lutto dal figlio mio nella tomba». E il padre lo pianse.  Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie.

Biografia

Nato nel 1953 a Beauraing (Belgio), André Wénin è docente di Antico Testamento alla Facoltà di teologia dell’Università Cattolica di Lovanio (Belgio), professore invitato di Teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana e segretario del Réseau de recherche en Narratologie et Bible (RRENAB).
Le sue ricerche vertono principalmente sulla Bibbia ebraica, e in particolare sulla Genesi e sui libri dei Giudici e di Samuele.
Nella sua riflessione, la passione del credente per le Scritture e la competenza dell’esegeta si arricchiscono a vicenda, facendo emergere l’interesse profondo per tutto ciò che è umano.
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