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L'arte come antidoto alla disintegrazione della coscienza

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10/12/2014

Tratto da:
Guido Davico Bonino, “Elsa Morante”, in: Incontri con uomini di qualità. Editori e scrittori di un’epoca che non c’è più, Il Saggiatore, 2013, pag. 285-287

Guida alla lettura

Questo ricordo di Elsa Morante è tratto da “Incontri con uomini di qualità”, un libro in cui Guido Davico Bonino rievoca le figure di autori, editori e intellettuali incontrate duranti gli anni della collaborazione professionale con la casa editrice Einaudi: anni caratterizzati da una straordinaria tensione ideale e culturale, della quale – al di là degli schieramenti specifici dei personaggi di allora – si sente oggi una grande e dolorosa mancanza.
Dal breve ritratto emerge la figura di una donna la cui personalità contribuisce a spiegare, fatte le debite proporzioni, anche lo spirito di questa nostra rubrica, dedicata al dolore nella cultura e nella letteratura. La vera funzione dell’arte, nel pensiero della Morante, è infatti quella di «impedire la disintegrazione della coscienza umana nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o, in una parola, la realtà». E poiché non esiste forza più logorante, alienante e disintegrante del dolore fisico ed emotivo, l’arte (nel nostro caso, la letteratura) può operare come potente antidoto al dolore stesso, stemperando la nostra sofferenza e aiutandoci a ritrovare «l’integrità del reale», che è poi anche integrità della nostra coscienza di fronte alla vita e al mondo.
Ma come riesce l’arte a fare tutto ciò? Trasmettendo alle persone la fiducia dell’attesa; ritraendo la disperazione, ma dando al tempo stesso un’immensa speranza; combattendo, istante dopo istante, la risacca dello sconforto; tendendo senza posa a una chiarità e a una luminosità del dire che, come per catarsi, liberino il mondo dalle sue colpe. Tutto ciò ben spinge Davico Bonino ad affermare di Elsa: «Mi colpiva l’assolutezza, la perentorietà con cui viveva la sua “missione” di scrittrice».
Il racconto ci offre poi altri importanti spunti di riflessione. Al primo incontro, la Morante «ti fissava con occhi impietosi e ti “catalogava”: si capiva se da allora in poi saresti stato ammesso o escluso da un rapporto vero e profondo con lei». In un’epoca di relazioni fragili e superficiali, in cui il termine quasi sacro di “amicizia” (ne hanno parlato scrittori grandissimi di tutti i tempi) è applicato agli evanescenti incontri che si consumano sui social network, è urgente un richiamo forte all’importanza di affetti solidi e coltivati nel tempo, capaci di scavare nell’interiorità e di trasformare il nostro modo di essere e di agire. Ma questo non è possibile senza un’adeguata selezione che faccia pulizia nella babele di voci e volti che affollano i nostri giorni: che non è alterigia, ma consapevolezza della preziosità di «un rapporto vero e profondo», e conseguente pudore e prudenza ad aprire il cuore e l’intelletto a chi ci viene incontro.
Il secondo spunto di riflessione non è meno netto. Come replica la scrittrice a un imbarazzatissimo Davico Bonino in uno dei passaggi più arguti del profilo, «solo i superficiali sono sempre giovani»: altra mozione necessaria ed essenziale, in un mondo che celebra la giovinezza dell’apparire e non più la freschezza del pensiero, unita alla compostezza che si deve all’età avanzata.
Infine, l’atto d’accusa contro l’alienazione dalla realtà, che «tende a trasformare gli uomini in automi incapaci di libertà e di giudizio». Questa mutazione perversa è, secondo la Morante, l’altra faccia dello «sfruttamento interessato della comunità umana, contro il quale i movimenti rivoluzionari presumono di combattere». Parole profetiche, se pensiamo alla parabola discendente di una scuola sempre più povera di figure carismatiche e dunque incapace di alimentare, attraverso la cultura, un autentico amore per la libertà e una vera capacità di giudizio critico; al triste declino di una televisione che, da veicolo di sapere, si è progressivamente fatta mezzo di intrattenimento, dove questa parola esprime tutto l’orrore del “trattenere” qualcuno dalla ricerca di senso e dalla realizzazione della propria vocazione a esistere; alla prevalenza del virtuale che ormai permea le nostre vite sempre “connesse”, la forma forse più perfetta e atroce di quella alienazione dal reale che i padri e le madri della civiltà contemporanea additavano come il principale pericolo per la sopravvivenza della nostra identità individuale e collettiva.
Il primo incontro con Elsa – nell’ufficio di Giulio Bollati, il solo in cui entrava o (per usare le sue parole) “riparava” – riuscì (ed è tutto dire) a raggelarmi. La Morante – questo almeno è quello che credetti di provare – ti fissava con occhi impietosi e ti “catalogava”: si capiva se da allora in poi saresti stato ammesso o escluso da un rapporto vero e profondo con lei. Non ho mai saputo quanti godessero del privilegio dell’ammissione (Bollati di certo), ma ebbi sempre l’impressione d’esserne escluso. La sensazione che si provava in casi come il mio non era gradevole (il sottinteso era: non è forse ingiusto che mi tratti così?): ma l’appartenere alla schiera (probabilmente, assai folta) di quanto non avrebbero mai potuto sedersi (idealmente) a convito con lei mi permetteva d’osservarla con uno sguardo sgombro da pregiudizi.
Mi colpiva l’assolutezza, la perentorietà con cui viveva la sua “missione” di scrittrice. Credevo di comprendere che in essa vibrasse una qualche religiosità “laica”: gli altri, la società, il mondo ingeneravano in lei fastidio, talvolta una vera e propria repulsione: eppure bisognava dirne le contraddizioni, svelarne l’infelicità, smascherarne le ipocrisie: il tutto con una scrittura che, tendendo disperatamente alla chiarità e alla luce, li “liberasse”, come per catarsi, delle loro colpe.
A fine ‘63 usci per i nostri Supercoralli una sua raccolta di racconti, “Lo scialle andaluso”, alcuni dei quali mi parvero bellissimi per una loro tutta particolare intensità elegiaca. Nel primo autunno la Morante venne a Torino per firmare un mannello di copie destinate agli amici più stretti. Quando veniva nella nostra città, diceva che la sua gente era bella, perché umana: e forse quella volta aveva più bisogno di altre del soffio rigenerante di persone veramente “umane”, perché nella primavera dell’anno prima era venuta a mancare una persona che aveva profondamente amato, un giovane pittore americano. Forse anche per questo motivo decisi di prendere il coraggio a quattro mani e le dissi tutto il trasporto provato alla lettura delle terze e ultime bozze.
«Mi dica senza esitare perché ne è rimasto colpito» mi chiese perentoriamente.
«Perché c’è tanta disperazione e al tempo stesso un’immensa speranza…».
«Questo è il mio compito: inculcare negli altri la fiducia nell’aspettazione». Poi, cambiando tono e addirittura registro di voce, aggiunse: «Anche se questo mi costa una fatica immensa, perché devo combattere, istante dopo istante, contro la risacca dello sconforto. E questa lotta incide nel mio corpo di vecchia…».
«Ma non è vecchi a cinquantun anni» osai controbattere.
Mi squadrò sdegnosa e, come se volesse punirmi, sillabò: «Solo i superficiali sono sempre giovani!».
(…) Nel febbraio ‘65 per l’Associazione culturale italiana, fondata e diretta con animosa dedizione dalla signorina Irma Antonetto, Elsa tenne, leggendo un testo scritto con particolare cura, una conferenza su “Pro o contro la bomba atomica” al Carignano di Torino, che replicò poi all’Eliseo di Roma quattro giorni dopo. Il testo, che si può leggere ora in un volumetto omonimo edito da Adelphi, non era politico – anche se prendeva le mosse da una molto lucida disamina della situazione mondiale, sostanzialmente bellicista – ma estetico, di poetica della letteratura. La Morante sottolineava con vigore come la vera funzione dell’arte fosse propriamente quella di «impedire la disintegrazione della coscienza umana nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o, in una parola, la realtà». Dove per realtà s’intende quello che il termine significa nel suo senso più profondo, e cioè il valore intatto, luminoso e religioso della vita e dei suoi oggetti, al di là delle apparenze confuse.
Purtroppo per l’uditorio dell’Associazione culturale quanto seguiva nell’esposizione non era propriamente idillico. Per la scrittrice – e cito da una sua messa a punto successiva – «la pace seguita alla Seconda Guerra Mondiale era, e rimane, una pace soltanto apparente: giacché non c’è pace finché l’irrealtà cieca devia le coscienze degli uomini. Allo sfruttamento interessato della comunità umana – contro il quale i movimenti rivoluzionari presumono di combattere – corrisponde, come un’altra faccia, forse ancora più squallida, dello stesso fenomeno sciagurato, l’alienazione dalla realtà, che tende a trasformare gli uomini in automi incapaci di liberà e di giudizio».
Ai generosi applausi di una minoranza di giovani fecero da contraltare gli ululati delle anziane socie del club (le donne ne costituivano la maggioranza). Le quali, non paghe di questa espressione di dissenso, attesero la Morante all’uscita e, sulla piazza antistante il teatro, la sommersero sotto una gragnuola di sonori epiteti, allarmati e sdegnati.

Biografia

Guido Davico Bonino
Guido Davico Bonino nasce a Torino nel 1938. Una parte significativa della sua biografia professionale attraversa una delle più interessanti e suggestive pagine della storia editoriale del nostro Paese: tra il 1961 e il 1978 lavora infatti presso l’editrice Einaudi, prima all’ufficio stampa (chiamato a soli 23 anni da Italo Calvino), poi alla segreteria generale, curando nel contempo numerose collane, fra cui la celebre “Collezione di Poesia” e restando anche in seguito uno dei più autorevoli autori della casa torinese. A questa lunga esperienza editoriale e intellettuale ha dedicato “Alfabeto Einaudi - Scrittori e libri” (2003) e “Incontri con uomini di qualità” (2013), da cui è tratto il brano che proponiamo.
Successivamente è critico teatrale per il quotidiano La Stampa, dal 1978 al 1989; direttore del Teatro Stabile di Torino, dal 1994 al 1997; direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, dal 2001 al 2003. Professore di Letteratura italiana e Storia del teatro a Cagliari, Bologna e Torino, dirige il Festival di Asti (1991) e la sezione “Prosa” del Festival di Spoleto (1991-93). Idea e conduce programmi radiofonici e televisivi, e dal 2009 cura per Isbn Edizioni la collana Novecento Italiano.
Nel corso degli anni Davico Bonino pubblica numerosi saggi, fra cui “Gramsci e il teatro” (Einaudi, 1972), “Il teatro di Harold Pinter” (Martano, 1977), “Lo scrittore, il potere, la maschera: tre studi sul Cinquecento” (Liviana, 1979), “Letteratura e teatro: nove studi, 1966-1978” (Tirrenia, 1979), “La commedia italiana del Cinquecento e altre note sulla letteratura e il teatro” (Tirrenia, 1989), “Teatro futurista sintetico” (Melangolo, 1993), “Teatro e società e altri studi di drammaturgia e letteratura” (Tirrenia, 1999).
Sempre in ambito teatrale, cura l’edizione completa delle opere di Buzzati (Mondadori, 1980) e di Camus (Bompiani, 1993), “I Fioretti di San Francesco”, “La Lena” di Ludovico Ariosto, “La mandragola” e “Clizia” di Niccolò Machiavelli, le opere del Lasca, e diversi altri classici; opere teatrali di D’Annunzio, Goldoni, Pasolini, dei futuristi; numerose traduzioni (Maupassant, Robbe-Grillet, Corneille, Racine, Thornton Wilder, Jules Renard, Prosper Mérimée, Maurice Maeterlinck). Con Roberto Alonge dirige la “Storia del teatro moderno e contemporaneo”, in quattro volumi (Einaudi, 2000-2003).
Sempre per Einaudi pubblica, nel 2002, “Elogio della rosa: da Archiloco ai poeti d’oggi”, e, nel 2003, “L’amore impossibile: quindici racconti da Sade a Sartre”. Alla lirica è dedicato anche “Cento poesie d’amore: da Dante a De André” (La Stampa, 2002; Interlinea, 2010).
Fra i libri più recenti spiccano “Poesia d’amore italiana: dalle origini al primo Novecento” (BUR Rizzoli, 2007), “Novecento italiano: i libri per comporre una biblioteca di base” (Einaudi, 2008), “Il piccolo libro dell’amicizia” (BUR Rizzoli, 2009), “D’amore si vive: racconti erotici da Boccaccio a D’Annunzio” (BUR Rizzoli, 2009), “Il nostro amore un sogno. Poesie d’amore romantiche” (Mondadori, 2011).

Elsa Morante
Elsa Morante nasce a Roma il 18 agosto 1912. Alla fine degli studi liceali lascia la famiglia, ma la mancanza di mezzi economici la costringe ad abbandonare la facoltà di Lettere. Negli anni Trenta si mantiene con la redazione di tesi di laurea, lezioni private di italiano e latino, collaborazioni a riviste e giornali, fra cui il «Corriere dei Piccoli». Fra il 1939 e il 1941 lavora per il settimanale «Oggi».
Nel 1936 conosce Alberto Moravia, che sposerà nel 1941. Nel medesimo anno viene pubblicato il suo primo libro, “Il gioco segreto”, in cui è raccolta una piccola parte della produzione narrativa destinata ai giornali; l’anno successivo appare il libro di fiabe “Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina”, illustrato dalla stessa scrittrice. Le sue personali e familiari inquietudini, il suo appassionato gusto della finzione emergono già nel “Diario”, redatto dal 19 gennaio al 30 luglio 1938, ma pubblicato solamente nel 1990.
Con Moravia vive prima ad Anacapri e poi a Roma, dove nel 1943 inizia a scrivere il suo primo romanzo, “Menzogna e sortilegio”, interrompendone tuttavia la stesura per seguire il marito, accusato di antifascismo, sulle montagne di Fondi, in Ciociaria. Nell’estate del ‘44 ritorna a Roma: il complicato rapporto con Moravia alterna momenti intensi ad altri di distacco e malessere. In Elsa, infatti, il bisogno di protezione e di affetto contrasta con una forte esigenza di autonomia; allo stesso modo desidera e rifiuta la maternità, a cui rinuncia, ma di cui rimpiange, al tempo stesso, la possibilità perduta.
Nel 1948, dopo un primo viaggio in Francia e in Inghilterra, esce “Menzogna e sortilegio”, con cui vince il premio Viareggio. Nei primi anni Cinquanta la scrittrice inizia un nuovo diario, che presto interrompe. Collabora con la Rai, viaggia, scrive il racconto “Lo scialle andaluso” e lavora alla redazione del secondo romanzo, “L’isola di Arturo”, che esce con notevole successo nel 1957, vincendo il premio Strega.
Nel 1959, durante un viaggio negli Stati Uniti, conosce il giovane pittore newyorkese Bill Morrow, con cui instaura un’intensa amicizia. Nel 1960 si trasferisce in un appartamento indipendente. Viaggia con Moravia in Brasile e l’anno successivo, con lui e Pasolini, si reca in India. Nel 1962 si separa definitivamente dal marito e vive la tragica esperienza della morte dell’amico Bill, precipitato da un grattacielo. Gli anni successivi sono drammatici: Elsa, pur continuando a viaggiare (in Andalusia, Messico, Galles), appare tormentata dalla morte del giovane Bill e dalla minaccia della vecchiaia. Dalla conferenza del 1965 “Pro e contro la bomba atomica” (uscita da Adelphi nel 1987) e dalle poesie de “Il mondo salvato dai ragazzini” (1968) emerge una forte inquietudine per i pericoli che minacciano l’umanità, insieme a un nuovo desiderio di intervento trasformativo sul mondo. Nel 1974 esce il terzo romanzo, “La storia”, che ottiene un grande successo di pubblico, ma suscita anche diverse polemiche. Nel 1976 inizia la stesura del suo ultimo romanzo, “Aracoeli”, che porterà a termine e pubblicherà solamente nel 1982: una frattura al femore occorsale nel 1980 la costringe a un doloroso intervento chirurgico, dopo il quale non potrà più camminare. Nell’aprile del 1983 tenta il suicidio. Dopo un nuovo intervento chirurgico, muore d’infarto il 25 novembre 1985.

(La biografia di Elsa Morante è liberamente tratta da Italialibri.net)
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