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Il più bel legame con la vita

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23/04/2008

Tratto da:
Anne Philipe, Breve come un sospiro, Garzanti, Milano, 1996

Guida alla lettura

Nel novembre del 1959 moriva, a soli trentasette anni, l’attore francese Gérard Philipe. La moglie Anne rivisse in un breve romanzo il suo immenso amore per lui.
In un soliloquio teso e vibrante, Anne si ribella al destino che l’ha privata della presenza del marito. Pur non essendo credente, intuisce che l’essere umano è un’unione indissolubile di corpo e spirito. Ma non trova consolazione nelle parole di chi, frettolosamente, le parla di sopravvivenza dell’anima. La morte in lei ha spezzato qualsiasi legame, lasciando un vuoto incolmabile, un’assenza lacerante, che sente quasi come un tradimento, un abbandono. Sentimenti in cui tutti ci possiamo riconoscere, soprattutto quando il dolore irrompe improvvisamente nella nostra vita e mette a dura prova tante sicurezze a lungo coltivate.
Il romanzo – diario di un dolore estremo – uscì in Francia nel 1964: suscitò grande emozione e il plauso generale della critica e del pubblico.
È raro, a Parigi, guardare il cielo. Lo troviamo ogni volta che usciamo da una città. Seguire il cammino della luna e delle stelle ha sempre avuto per me il senso di una visita grave e felice all’universo di cui siamo parte. Quando mi separavo da te, mi davi appuntamento su una stella e a me sembrava di vedere il filo del nostro amore – linea luminosa, freccia di velluto, traccia infuocata – partire da ciascuno di noi per riunirsi in Orione. Spesso contemplando il cielo, di notte, ho misurato più intensamente e più ragionevolmente la mia gioia o il mio dolore, preso consapevolezza del mondo, del posto che vi occupiamo, della solitudine, della perfezione dell’amore, «... fedele come il sole al giorno, come la tortora al suo maschio, come il ferro alla calamita, come la terra al suo centro» diceva Troilo a Cressida.
Dopo la tua morte, per mesi fuggii il cielo. Lo ritrovai una notte d’estate, esattamente il ventotto agosto. Scrutavo le stelle cercandone una che trovai subito. Si muoveva da ovest ad est, quieta e sola. Era nata dalla mano e dall’intelligenza dell’uomo e si chiamava «Eco II». Grazie ad essa riannodai i rapporti con la notte. Quella sera rimasi a lungo fuori, spiando il suo ritorno. Mi sembrava di aver riportato una vittoria. Ero fiera di vivere nel momento in cui, per la prima volta, gli uomini entravano nel cosmo. Tuttavia mi trovavo a mani vuote, a poche centinaia di metri da quel che restava di te. Non avresti conosciuto il mondo che stava nascendo, la nostra vita non ti riguardava più. E non potei impedirmi di pensare che avrei preferito al più bello e pacifico razzo del mondo la scoperta del farmaco che ti avrebbe guarito.
Devo pur confessarmelo: per la prima volta capita che mi assalgano i ricordi; li chiamo, chiedo loro aiuto per vivere, rientro in me e frugo nel passato. Qualche volta ti serbo rancore d’esser morto. Hai disertato, mi hai lasciata. Per colpa tua non sopporto più i cieli grigi, le piogge di novembre, le ultime foglie dorate, gli alberi neri e spogli su cui leggevo una promessa di primavera. Fuggo le albe e i crepuscoli; devo farmi forza per guardare il sole e il chiaro di luna. Ero leggera e grave; adesso sono pesante e invece di slanciarmi mi trascino. Tutto mi costa sforzo.
Non cerco più in nessun luogo il tuo viso. Per parecchio tempo ti ho visto spuntare dappertutto. Come trovare un sentiero, una strada, un marciapiede ove non avessimo camminato insieme? Dovevo fuggire o affrontare sola qualsiasi luogo. In mezzo alla folla, nella solitudine di un bosco non vedevo che te. La mia ragione rifiutava questi miraggi, ma il mio cuore li cercava. Tu eri assenza e presenza. Ad ogni ora mi domandavo non soltanto com’era possibile che io fossi viva, ma che il mio cuore continuasse a battere dopo che il tuo si era fermato. Quando mi sentivo dire che eri ancora tra noi annuivo. A che scopo discutere? Ma intanto mi dicevo che è facile per certuni accettare la morte altrui. Forse tentano così di rassicurarsi sulla propria eternità.
Ti ho amato troppo per accettare che il tuo corpo sparisca, per proclamare che basta la tua anima e che quest’anima vive. E poi, come riuscire a separarli, come asserire: questa è la sua anima e questo è il suo corpo? Il tuo sorriso e il tuo sguardo, il tuo passo e la tua voce erano materia o spirito? L’una e l’altro, ma inseparabili.
Talvolta gioco a un orribile gioco: quale parte di te avrebbe potuto esserti strappata, amputata senza che tu cessassi d’essere quel particolare uomo che amavo? Qual era il segno, dov’era il confine? Quando avrei detto: non ti riconosco più?
Tu sei stato il mio più bel legame con la vita. Sei divenuto la mia conoscenza della morte. Quando la morte verrà non avrò l’impressione di raggiungerti, ma di seguire un cammino familiare, a te già noto.
Gérard Philipe (1922-1959) è stato un attore-mito del Novecento, celebre soprattutto per “Il diavolo in corpo” (Le diable au corps) del 1947, una struggente storia d’amore che indignò molti, ma che fu anche un manifesto delle inquietudini e dei sogni dei giovani di allora.
Philipe, bello e ribelle come il contemporaneo James Dean, divenne l’incarnazione della rivolta contro la generazione della guerra, simbolo di una gioventù psicologicamente fragile e inquieta. Morì di tumore al fegato al culmine della notorietà.
Nata nel 1917, Anne (il cui vero nome era Nicole) fu una scrittrice assai apprezzata. Nel 1948 esplorò per un anno la Cina, lungo la via della seta, e su quel viaggio scrisse nel 1955 “Caravanes d’Asie”. Realizzò numerosi reportage anche sull’Africa e sull’America Latina. Morì nel 1990.
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