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Il paradosso della Pasqua

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11/04/2012

Tratto da: Enzo Bianchi, Il paradosso della Pasqua, La Stampa, 27 marzo 2005

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo brano Enzo Bianchi medita sul significato della Pasqua: festa di liberazione per eccellenza, per gli ebrei dalla schiavitù, attraverso l’uscita dall’Egitto, per i cristiani dalla paura della morte, attraverso la resurrezione di Cristo. Tre i punti centrali della riflessione.
Primo, per quanto paradossale possa sembrare l’annuncio che un uomo è tornato dai morti, è «qui e non su altro che si gioca lo specifico del cristianesimo»: al punto che l’apostolo Paolo affermerà con forza che se Cristo non è risorto, vana e illusoria è la fede dei suoi seguaci, e il cristiano è solo una persona da compatire. La fede nella resurrezione è il messaggio che contraddistingue i credenti in Gesù, e il suo annuncio rispettoso e discreto è il “grande debito” che essi hanno verso chiunque sia alla ricerca di qualcosa di non effimero in cui sperare.
Secondo: è troppo sbrigativo dire che Cristo è risorto perché era il figlio di Dio. Questa pur fondamentale verità teologica non deve farci perdere di vista una non meno importante verità antropologica: Cristo è risorto innanzitutto perché, per tutta la sua esistenza, è stato capace di esprimere un amore più forte della morte, ed è stato questo amore che infine lo ha riportato in vita.
Terzo: anche per noi – laici e credenti – la sola possibilità di superare la paura della morte, e l’alienazione che ne deriva, sta nel tentare di amare in ogni occasione, e di accettare di essere amati da chi ci è vicino. Lo ripetiamo con convinzione: laici e credenti. Al di là della specifica fede che il cristiano professa nella resurrezione di Gesù, infatti, lottare ogni giorno, nelle piccole come nelle grandi cose, perché la morte non abbia l’ultima parola è un obiettivo che può conferire senso alla vita di tutti.
«Chi crederà al nostro messaggio?», si chiedeva il profeta Isaia dopo aver tratteggiato un uomo “giusto”, oltraggiato fino a non possedere più un volto, condannato insieme a malfattori comuni, ucciso senza opporre resistenza né avere difensori, ma alla fine richiamato in vita da Dio, vincitore sulla morte. Chi potrà credere a questo annuncio paradossale? Eppure questa fede, questa fiducia nella risurrezione di Gesù, primo uomo risorto da morte, continua a essere presente nella storia fino a oggi in milioni di uomini e di donne. Ed è qui, sulla fede in questa vittoria di Gesù Cristo sulla morte, qui e non su altro che si gioca lo specifico del cristianesimo. Dice l’apostolo Paolo: «Se Gesù Cristo non è risorto, vana allora è la nostra fede... e i cristiani sono da compiangere più di tutti gli uomini» (1Cor 15,17.19). Questo è il grande debito che i cristiani hanno verso gli altri uomini, questo è ciò che possono offrire agli uomini tutti che segretamente, prima o poi, di fronte alla morte si chiedono: «Cosa posso sperare?».
Non è un caso che Gesù risorto sia stato “visto e sperimentato” solo da alcuni, da pochi credenti in lui, ma quelli che hanno prestato fede alla loro testimonianza, senza mai pretendere apparizioni del Risorto, hanno narrato nei secoli la verità della vittoria della vita sulla morte con il loro modo di vivere e di morire, con la loro differenza cristiana. Hanno mostrato che le energie della risurrezione di Gesù operavano in loro, rendendoli una comunità che faceva uscire dall’egoismo dell’io per instaurare la comunione del noi, rendendoli capaci di perdono e di amare il nemico senza chiedere reciprocità, capaci di compassione verso tutte le creature e soprattutto verso gli ultimi. Molti cristiani hanno mostrato di credere nella risurrezione non tanto parlandone, ma piuttosto operando la giustizia che porta ad agire per la liberazione dall’oppressione e dalla morte, rinunciando all’affermazione di sé e spendendo la vita al servizio dell’altro. Sì, il paradosso della Pasqua può essere narrato solo da vite paradossali.
Ma è decisivo chiederci perché Gesù è risorto da morte, e sarebbe troppo sbrigativo affermare che è risorto perché figlio di Dio. In verità, Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che aveva vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino alla fine, fino all’estremo. Potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte ad attuare la decisione del Padre nel richiamarlo dalla morte alla vita piena. In questo senso il messaggio pasquale non riguarda solo i cristiani, ma può essere annunciato con discrezione e umiltà anche agli altri uomini perché è un messaggio che rivela la forza dell’amore, un messaggio cui tutti gli uomini possono essere sensibili, un messaggio comprensibile da tutti.
La Pasqua ebraica celebrata da Gesù, e celebrata ancora oggi dagli ebrei credenti, contiene un annuncio di speranza e di liberazione: dalla schiavitù si è chiamati alla libertà. In questo alveo mai contraddetto, la Pasqua cristiana proclama che dalla morte si è chiamati alla vita. Sappiamo bene che è il pensiero della morte – anche se, come diceva Freud, non vogliamo credere alla nostra morte – quello che scatena in noi il desiderio e la volontà di vivere a ogni costo, anche senza gli altri e contro gli altri. La morte, dicono i sapienti della Bibbia, è “il re delle paure” (“melek ballahot”) e ha in sé una potenza che può essere schiavizzante. «Per paura della morte gli uomini risultano alienati per tutta la vita», dice l’apostolo Paolo, e tutti noi sperimentiamo questa possibilità di diventare malvagi proprio perché abitati dall’angoscia della morte: volendo vivere a ogni costo e quasi per allontanare ogni possibilità di morte, noi pensiamo soprattutto a noi stessi, vogliamo possedere, dominare, arrivando fino a pensare che tutto questo è ragionevole e giusto, per poi fare l’amara esperienza di aver intrapreso un cammino mortifero.
Sì, davanti all’uomo c’è una via della morte e una via della vita ed egli deve scegliere, nella consapevolezza che più forte della morte è soltanto l’amore, come sta scritto nel Nuovo Testamento: «Chi non ama, rimane nella morte... chi ama passa dalla morte alla vita». L’unico modo per non avere paura né angoscia della morte, pur provandone timore, è tentare di spendere la vita per gli altri, tentare di amare e accettare di essere amati in ogni situazione. Questo è quello che cercano di dire e di vivere i cristiani consapevoli della loro fede. E lo dicono da perseguitati in Cina, in Vietnam, in Sudan, in tante situazioni di minoranza, di ostilità, di disprezzo… Lo dicono anche nelle terre di antica cristianità come l’Europa, a volte soffrendo e tacendo a causa delle difficoltà a vivere la comunione e a vivere l’amore nella chiesa stessa.
Di fronte alla riduzione del cristianesimo a morale che sia cemento di aggregazione per la società, a religione spiritualistica tesa solo allo star bene con se stessi, a religione civile in cui non si sa più cosa spetti a Cesare e cosa a Dio e la fede è strumentalizzata per fini politici, a predicazione ridotta a ideologia da sbandierare senza conversione né conformità alla vita di Gesù, l’annuncio della Pasqua cristiana rimane tuttavia non catturabile e non utilizzabile a scopi interessati. I cristiani ne devono essere consapevoli: se non sanno più credere alla risurrezione di Gesù, primizia della loro stessa risurrezione dopo la morte, non sono cristiani; se non credono al Cristo risorto e vivente, pur continuando a dirsi cristiani, sono da compiangere più di tutti gli uomini. (…)
Pasqua è certo gioia e festa, ma non a basso prezzo: per poter sperare e indicare agli uomini cosa possono sperare, occorre mostrare concretamente nella quotidianità esistenziale quanto si è capaci di credere all’amore più forte della morte.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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