Guida alla lettura
In questa prima parte, Manicardi sottolinea alcune dimensioni rilevanti del martirio: testimonianza libera e consapevole; attestazione di fede nella verità fisica delle sofferenze patite dall’uomo Gesù, messa in dubbio dall’eresia nota come “docetismo”; compimento del Vangelo, e in particolare di quei luoghi in cui si prevedono sofferenze e persecuzioni per i cristiani (anche qui: non per un volere perverso di Dio, ma perché in un mondo ingiusto il giusto è sempre destinato a soccombere); imitazione concreta della vita e dello stile di Cristo. Nella seconda parte Manicardi completerà l’analisi del fenomeno illustrandone infine, come abbiamo detto, il vero significato alla luce del Vangelo. E noi, nel nostro commento, trarremo alcune conclusioni valide per le donne e gli uomini di oggi.
Il fondamento della prassi, prima ancora che della teologia, del martirio, è costituito dalla convinzione della realtà delle sofferenze patite da Gesù Cristo. In polemica con le tendenze docetiche che ben preso si svilupparono, ovvero, con la linea di pensiero che tendeva a sminuire l’incarnazione e a non accordare che valore di apparenza alla corporeità, alle sofferenze e alla morte di Cristo, i padri della chiesa sempre hanno sottolineato con forza la realtà della passione di Cristo. Ignazio di Antiochia, nel suo viaggio verso Roma dove attendeva il martirio, scrive ai cristiani di Smirne: «Gesù Cristo fu veramente inchiodato nella carne … Egli soffrì realmente come realmente risuscitò, non come dicono alcuni infedeli, che soffrì in apparenza» (cf. Ignazio, Agli Smirnesi I -II). Con Ignazio siamo agli inizi del secondo secolo. La stessa testimonianza delle sofferenze del martire diviene una prova della realtà delle sofferenze di Cristo: «Se, come dicono quelli che sono atei, cioè senza fede, Gesù soffrì in apparenza, mentre sono loro che vivono in apparenza, perché io sono incatenato? Perché bramo di combattere contro le belve? Invano dunque muoio?» (Ignazio, Ai Tralliani X). E similmente: «Se è un’apparenza quanto è stato fatto dal Signore, anch’io sono in apparenza incatenato. Allora, perché mi sono offerto alla morte? Per il fuoco, per la spada, per le belve? Ma vicino alla spada, sono vicino a Dio, vicino alle belve sono vicino a Dio, solo nel nome di Gesù Cristo. Per soffrire con lui, io tutto sopporto, dandomene la forza colui che si è fatto uomo perfetto» (Ignazio, Agli Smirnesi V,2).
Inoltre le sofferenze e il martirio sono compimento del vangelo. I credenti sanno bene che la promessa del Signore per coloro che decidono di seguirlo comprende anche le persecuzioni: «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del vangelo che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel mondo che verrà» (Marco 10,29-30). Il discorso escatologico di Gesù nei vangeli sinottici contiene anticipazioni della sorte futura dei credenti in lui: «Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti a governatori e re per causa mia… Vi condurranno via per consegnarvi… Sarete odiati da tutti…» (cf. Marco 13,9.11.13); «viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Giovanni 16,2). Per i padri della chiesa è evidente che il soffrire e patire a motivo della fede fa parte della "sequela Christi", dell’identità del discepolo, e che il martirio, la perdita della vita per fedeltà a Cristo, è esito possibile della sequela, anzi, l’esito più alto, quello che attesta nella maniera più certa l’autenticità del cammino del credente. La morte per Cristo attesta in modo inequivocabile che la vita è stata vissuta per Cristo. Policarpo, vescovo di Smirne, morì martire nel 167, e il suo martirio è definito testimonianza “secondo il vangelo” (Martirio di Policarpo I,1). Il martirio è cioè compimento del vangelo; esso realizza la forma del vangelo in una persona, anzi vi realizza la figura di Cristo stesso, tanto che il martirio viene visto come il vertice dell’imitazione di Cristo. Scrive Ignazio di Antiochia ai cristiani di Roma: «Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio» (Ignazio, Ai Romani VI,3), e ai cristiani della città di Magnesia: «Se noi non siamo disposti a morire per imitare la passione del Signore, la sua vita non è in noi» (Ignazio, Ai Magnesii V,2).
Note dell'Autore
2) M. Pellegrino, Chiesa e martirio in sant’Agostino, in Rivista di Storia e Letteratura religiosa, 1 (1965), p. 191
Biografia
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.