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Et io pur vivo

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02/06/2010

in: Francesco Petrarca, Canzoniere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006

Guida alla lettura

Questo meraviglioso sonetto fu scritto da Francesco Petrarca dopo la morte di Laura. A differenza però delle altre due composizioni sinora proposte, “Di me non pianger tu” e “Te solo aspetto”, che esprimono una visione spirituale della donna perduta, “Et io pur vivo” riflette amaramente sulla caducità della vita e sull’orrore della morte come negazione radicale dell’amore e della bellezza.
La struttura della composizione è limpida e di facilissima lettura: sette versi che ritraggono il fascino e la dolcezza della giovane; un verso improvviso e sconsolato, che rivela impietoso quanto resta di tanta grazia («poca polvere son che nulla sente»); un verso che esprime lo sgomento e la rabbia del poeta per essere sopravvissuto alla donna amata («Et io pur vivo; onde mi doglio e sdegno»); cinque versi conclusivi che ne ritraggono la vita ormai priva di luce («senza ’l lume ch’amai tanto») e l’ispirazione poetica spenta dal dolore («la cètera mia rivolta in pianto»).
Concentriamo l’attenzione sull’ottavo e sul nono verso. Il primo («poca polvere son che nulla sente») riecheggia in modo suggestivo un’altra grande poesia del passato: l’Epicedio di Cornelia di Properzio, in cui lo spirito della sventurata protagonista, consumata dal fuoco della pira funeraria, pronuncia una frase immortale che tanto ci insegna sulla nostra verità di mortali: «Et sum, quod digitis quinque legatur, onus», «Questo sono io ora: un peso leggero, che sta in una mano».
Il secondo («Et io pur vivo; onde mi doglio e sdegno») esprime con straordinario intuito psicologico non solo l’ovvia disperazione del poeta, ma anche il suo rabbioso senso di colpa nei confronti della donna morta: in quelle parole brevi, spezzate dal pianto, riconosciamo con un brivido tutta la nostra ribellione di fronte alla scomparsa di una persona infinitamente amata, il non senso che sembra assalire ogni nostra ora senza di lei, il sogno impossibile di riscattare la sua vita con la nostra, l’odio per noi stessi, superstiti senza merito a chi più non accompagna il nostro cammino...
(Versione originale)

Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente,
e le braccia e le mani e i piedi e ’l viso,
che m’avean sì da me stesso diviso
e fatto singular da l’altra gente;
le crespe chiome d’òr puro lucente,
e ’l lampeggiar de l’angelico riso,
che solean fare in terra un paradiso,
poca polvere son che nulla sente.
Et io pur vivo; onde mi doglio e sdegno,
rimaso, senza ’l lume ch’amai tanto,
in gran fortuna e ’n disarmato legno.
Or sia qui fine al mio amoroso canto:
secca è la v’usato ingegno,
e la cètera mia rivolta in pianto.

(Versione in lingua corrente – A cura della nostra redazione)

Gli occhi ch’io cantai con tanto amore,
e le braccia e le mani e i piedi e il viso,
che mi avevano rapito fuor di me,
e reso diverso da tutta l’altra gente;
i crespi capelli lucenti come oro puro,
e il lampeggiare del suo angelico sorriso,
che tramutavano la terra in paradiso,
sono ora poca polvere, che nulla sente più.
E tuttavia io vivo; e me ne addoloro e sdegno,
avvolto da una gran tempesta,
barca senza vele e timone,
senza più la luce che amai tanto.
Abbia qui termine il mio canto d’amore:
inaridita è la vena della cara ispirazione,
e la mia cetra, è rivolta in pianto.

Biografia

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304. Il padre, ser Pietro di ser Parenzo (soprannominato ser Petracco da cui, attraverso ulteriori trasformazioni di gusto latineggiante, il cognome del poeta), è notaio e guelfo bianco. Nel 1311 la famiglia si trasferisce nei pressi di Avignone, in Francia, al seguito della corte papale.
Malgrado le precoci inclinazioni letterarie, il padre avvia Francesco agli studi giuridici, prima a Montpellier e poi a Bologna. Nel 1326 il padre muore e il giovane, rientrato in Provenza per riprendere gli amati studi classici, incontra Laura e se ne innamora.
Verso il 1330, Petrarca entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Appoggiato dall’illustre famiglia romana, compie numerosi viaggi in Europa, durante i quali approfondisce la propria formazione culturale classica e patristica, scoprendo e ricopiando codici antichi.
Nel 1337, tornato in Provenza, si ritira a Valchiusa (oggi Fontaine-de-Vaucluse), ove dimorerà, pur con numerose e lunghe interruzioni, sino al 1353, componendovi molte delle sue opere, in italiano e in latino. Nel 1340, il Senato di Roma lo cinge in Campidoglio della corona poetica. Fra il 1342 e il 1347 riprende i viaggi in Francia e in Italia, continuando a scrivere ma ricoprendo anche numerosi incarichi politici. Il 19 maggio del 1348 apprende a Parma della morte prematura di Laura, uccisa dalla peste così come gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna, Francesco degli Albizzi.
Nel 1953 rientra definitivamente in Italia, presso la corte milanese dei Visconti, per i quali sarà ambasciatore a Venezia, Praga e Parigi. Questa intensa attività non gli impedisce però di godere di lunghi periodi di tranquillità, in città e nella campagna circostante, per attendere a nuovi lavori letterari.
Nel 1362, scoppiata nuovamente la peste, lascia Milano e si reca prima a Venezia, poi a Padova: ospite di Francesco da Carrara, signore della città, dimora spesso anche ad Arquà, sui colli Euganei, in una villetta che egli stesso descriverà come “piccola e graziosa, circondata da un uliveto e da una vigna”. E proprio ad Arquà muore improvvisamente nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374: si narrerà che sia stato trovato sereno, con il capo chino su un volume di Virgilio, il poeta più amato.
Il “Canzoniere”, la sua opera più famosa, è una raccolta di 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, selezionati da Petrarca stesso fra la sua vastissima produzione. La maggior parte delle composizioni è dedicata all’amore per Laura, e riflette una tensione straordinaria dal punto di vista umano, poetico e culturale: da un lato, infatti, la donna è cantata e vagheggiata con forti accenti sensuali, ispirati alla lirica italiana e provenzale dei secoli XII e XIII; dall’altro, specialmente dopo la morte della giovane, prevale di lei la visione stilnovistica e poi dantesca della “donna-angelo”, ricolma di ogni virtù, e per tanto fonte di conforto e tramite verso Dio.
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