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Cura, leggerezza, pazienza: il segreto di una vita consapevole e felice

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14/01/2015

Tratto da:
Enzo Bianchi, Un impasto di pazienza, parsimonia e leggerezza, La Repubblica, 14 dicembre 2014

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Lo scorso 12 gennaio, sul sito personale di Alessandra Graziottin, è uscito un articolo intitolato “Obiettivi 2015: coraggio, leggerezza, silenzio”. In esso, la professoressa racconta quali compagni di viaggio ha scelto, e augura, per il nuovo anno: il coraggio di non arrendersi al buio che ci circonda, e di impegnarsi a cambiare in meglio il mondo in cui viviamo; la capacità di far silenzio, per accogliere con attenzione la musica della vita; e la leggerezza, per liberarsi dalle zavorre fisiche e mentali che ostacolano il cammino.
Enzo Bianchi – in questa breve riflessione che offriamo come dono di inizio anno – ritorna sul tema della leggerezza, della cura, della capacità di attesa, a partire dall’esempio di due semplici processi del mondo contadino: la produzione dell’aceto, dal vino e con il concorso della “madre” dell’aceto stesso; la produzione del pane, dalla farina e dall’acqua, e con il contributo della pasta “madre”.
Sull’esempio di queste lavorazioni sapienti e antiche, Bianchi chiede se «nel nostro quotidiano sappiamo custodire quanto ci è stato trasmesso, se riusciamo ad astenerci dal consumare tutto e subito, se affrontiamo l’impasto delle nostre esistenze con la leggerezza che le dilata»: perché «ne va della lievitazione del nostro piacere di vivere», e dunque anche della realizzazione dei nostri progetti. Senza scorciatoie: che in tutte le situazioni della vita consentono sì di ottenere quasi gli stessi risultati, ma che nascondono nelle ingannevoli lusinghe di quel “quasi” buona parte dell’incompiutezza del nostro essere.
Le parole e gli esempi di Bianchi suggeriscono anche che tutto, nella vita, ha bisogno di una madre – e di un padre. Ne deriva la nostra responsabilità di figli, verso chi ci ha preceduto, e di progenitori, per coloro che abiteranno la Terra dopo di noi, affinché la vita di tutti sia protetta dal dolore, ma anche dal male sottile e apparentemente innocuo dello spreco e della banalità.
Che il 2015, dunque, sia un anno in cui ciascuno di noi possa guardare dentro a se stesso, cogliere l’essenziale del proprio stare al mondo e dare profondità alle proprie azioni quotidiane. Impegniamoci a vivere e ad esistere, lasciando da parte ciò che induce a una scontata sopravvivenza, al monotono ripetersi di giorni tutti uguali: la lotta al dolore esistenziale parte da qui.
Tra i lasciti che nel mondo contadino una generazione trasmetteva all’altra come beni preziosi vi erano due elementi molto concreti e al tempo stesso fortemente simbolici: gli uomini consegnavano ai figli la “madre” dell’aceto, il fermento che trasforma in sapore intenso l’evanescenza del vino; le donne trasmettevano alle figlie la pasta “madre”, il lievito naturale che genera altro pane. Enzimi che nascevano da realtà quotidiane – un po’ di vino, un impasto di acqua e farina – e che si sviluppavano nell’oscurità di una cantina o nel tepore di una madia. Il vino della gratuità, una volta smarrita la sua forza, riceve nuova vita facendosi agro; il pane della necessità trova nell’acidità del lievito una leggerezza di cui sarebbe incapace. E se la madre dell’aceto sviluppa nel tempo le sue potenzialità da sola, accontentandosi di ricevere ogni tanto un rabbocco di vino, il lievito richiede cura, attenzione, costante rimessa in gioco da parte di chi giorno dopo giorno lo utilizza per il nuovo pane.
Lievito è divenuto fin dai tempi biblici sinonimo di realtà piccola, nascosta, ma capace di far muovere grandi masse – il Vangelo lo paragona addirittura al mistero del regno di Dio – e di dilatare le dimensioni della materia con cui è mescolato. Ma lievito è anche invito alla pazienza, al saper aspettare i tempi di maturazione, al non perturbare il microclima circostante; è richiamo – stiamo parlando di quello naturale, ottenuto dalla pasta madre – a saper custodire, al non consumare tutto ma a mettere da parte qualcosa in vista di un domani in cui il patrimonio del passato diventa pegno per il futuro. Pazienza, lavoro, mani tenere e braccia robuste, acqua che amalgama, farina che imbianca l’impasto e poi ne diviene parte, tepore che stimola... tutta questa fatica e sapienza per ottenere qualcosa di impalpabile: la leggerezza, la sofficità, la fragranza, la complementarietà tra pieno e vuoto.
Certo, anche per la lievitazione, come per ogni lavorio che richiede pazienza, esistono scorciatoie, accelerazioni chimiche, surrogati che ottengono “quasi” lo stesso risultato: ma quante volte la qualità delle nostre vite si misura proprio su ciò che manca a quel “quasi”, su quella leggerezza naturale che si ha per aggiunta di aria, di soffio, di respiro e non per ansia di bruciare le tappe. Se mangiare pane non lievitato è segno di fretta, di impazienza, di tempi accorciati, mangiare pane secco significa aver lasciato svanire la vivacità del lievito, aver interrotto quel continuo pulsare della crescita al cuore del pane, e anche aver spezzato la catena che unisce un impasto di farina con quello che l’ha preceduto.
Chiediamoci allora se nel nostro quotidiano sappiamo custodire quanto ci è stato trasmesso, se riusciamo ad astenerci dal consumare tutto e subito, se affrontiamo l’impasto delle nostre esistenze con la leggerezza che le dilata, se ci riconosciamo debitori verso l’amorevole cura di chi ci ha preceduto. Ne va della lievitazione del nostro piacere di vivere.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
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