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Che cosa ci attende dopo la morte? Le risposte dei protestanti

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31/07/2013

Tratto da:
Paolo Ricca, Dove vivono i morti – se vivono?, Riforma, 9 aprile 2010

Guida alla lettura

Sul mondo al di là della morte e sul destino dei defunti i protestanti preferiscono tacere, come davanti a un mistero troppo grande per la conoscenza umana e che la Bibbia, d’altra parte, non ha voluto svelare. Essi riconoscono il carattere metaforico, allusivo, dei testi biblici che parlano di “giardino dell’Eden” come immagine del paradiso, e della “geenna”, la valle di Gerusalemme dove si bruciavano le immondizie, come metafora dell’inferno. Detto questo, la loro analisi si ferma e si rimette a Dio, sempre attraverso la speranza che proviene loro da ciò Gesù Cristo ha fatto, insegnato e vissuto.
In questo interessante articolo, tuttavia, Paolo Ricca – teologo della Chiesa Evangelica Valdese – espone due dottrine diffuse nel mondo protestante e ne critica una terza, quella cattolica del purgatorio, come totalmente infondata dal punto di vista biblico e sostanzialmente contraria all’essenza stessa del Cristianesimo. Lo stesso concetto di “inferno”, ossia di un luogo ove gli empi vivano tormentati in eterno da pene crudeli, è difficilmente conciliabile con il messaggio del Vangelo. Ciò che emerge dalle parole e dalle opere di Cristo è infatti che Dio non vuole che la vita dell'uomo sia annientata dalla morte ma che sia bella e felice oggi, su questa terra, e sia piena e senza tramonto alla fine dei tempi, con la resurrezione.
Anche la resurrezione però è un punto particolarmente difficile da capire. Gesù non ha ripreso a vivere come una persona che esca dal coma, o come un cadavere rianimato. Pur rimanendo se stesso, dopo Pasqua non è più quello di prima, non lo si vede più per le strade della Palestina, solo i suoi discepoli ne avvertono la presenza, e sempre in modo eccezionale: non lo riconoscono mai a prima vista, deve sempre dare dei segni della sua identità. L’apostolo Paolo riflette su questi dati e, predicando che in analogia alla resurrezione di Gesù anche i cristiani risorgeranno, precisa come si tratterà non di riprendere il corpo vecchio, ma di condurre una vita nuova in Dio, con un corpo “glorioso” o “spirituale”.
Al di là di ogni speculazione, anche la più alta e documentata, rimane per tutti – credenti e non credenti – il mistero di una soglia oscura, che induce di volta in volta paura, sgomento, rabbia, indifferenza, speranza. Ma è dall’esistenza di quella soglia che dipendono la terribile serietà della nostra vita e il valore del tempo che ci è concesso: ciò che conta, ciò che dà significato ai nostri giorni non è tanto, o innanzitutto, dove andremo dopo la morte, ma cosa facciamo e come viviamo mentre siamo qui. E dal senso profondo che riusciamo a dare alla nostra vita, discende la possibilità concreta di sperimentare la gioia e combattere il dolore.
“Anni fa ho assistito a un funerale in una nostra chiesa evangelica e il sermone del pastore era centrato su questo messaggio: il fratello che è deceduto, oggi è con il Signore il quale lo accoglie a sé perché premia la fatica delle sue mani. Sono rimasto perplesso. Veramente chi muore «oggi» è «oggi» con il Signore? Vi è questa presenza temporale con il Signore? Qual è la sorte del cristiano di fronte alla sua morte? Essere con il Signore perché si è operato con fedeltà o essere in attesa della risurrezione dei morti?”.
G. A., Campobasso


Dove vivono i morti, se vivono? Non è certo una curiosità frivola chiedersi se, dopo l’avventura in questo mondo, andremo da qualche parte, oltre che in una tomba o in un’urna o chissà dove, «leggeri nel vento», come dice Davide Maria Turoldo in uno dei suoi “Canti ultimi” (Garzanti 1992). Desidero anzi, iniziando questa risposta, riprodurre quel canto per intero, anche per rendere omaggio a un caro amico, grande cantore della fede e intrepido cristiano (era un frate servita) anche nel modo di affrontare, dopo lunga e tormentata agonia, la sua morte: non trasfigurandola, cioè non facendo finta di non vedere l’ombra del Nulla che l’accompagna, e al tempo stesso confessando e interrogando il Tu divino, compagno della sua vita e della sua morte. Ecco dunque il canto intitolato “E quando avrò”: Quando avrò dalla mia cella / salutato gli amici e il sole / e si alzerà la notte, / finalmente / saldato il conto, / campane / suonate a distesa: / la porta è da tempo / segnata dal sangue / pronte le erbe amare / e il pane azzimo: / allora andremo / leggeri nel vento.
Come Israele, liberato dalle catene della schiavitù, poté partire verso la terra della libertà, così noi, liberati da Cristo dalle catene della morte, potremo andare “leggeri nel vento”: verso dove? Ecco la domanda del nostro lettore, alla quale ora dobbiamo rispondere. Prescindo qui dalle risposte che sono state date e si danno in altre religioni o visioni laiche del mondo o della vita, diverse da quella cristiana. La cosa sarebbe di grande interesse, ma non ho lo spazio per farlo. Limitiamoci quindi al cristianesimo che ha, nel cuore del suo Credo, la fede nella risurrezione di Cristo («il terzo giorno risuscitò») e dei corpi («credo... la risurrezione dei corpi»; i simboli cristiani più antichi dicono «della carne»!), e che nel corso della sua (ormai) lunga storia ha elaborato tre diverse risposte alla domanda del nostro lettore, che sono, a grandi linee, queste.
1. La prima è quella del purgatorio, una dottrina sviluppatasi solo a partire dal XII secolo, che ipotizza l’esistenza di un “luogo” (non necessariamente fisico in un’ipotetica “geografia dell’aldilà”) e di un “tempo” misurabile (con un inizio e una fine, quindi una durata), nei quali l’anima si purifica, attraverso vari tipi di pene (quella maggiore è la privazione della visione di Dio), e viene così resa idonea a entrare nel “paradiso”, cioè nella presenza e comunione di Dio. Secondo questa dottrina, quando una persona muore, anche se è credente, non accede immediatamente al mondo di Dio, ma deve passare per il purgatorio, perché nessuno in questa vita è così perfetto da non avere qualche pena da espiare. Ora però la dottrina del purgatorio non ha alcuna base biblica, è anzi contraddetta da molte affermazioni della Scrittura ed è perciò giustamente rifiutata sia dalle chiese della Riforma, sia dalle chiese ortodosse, e lo era già stata dai Valdesi medievali. Lutero definisce il purgatorio «una pura fantasmagoria del diavolo» e Calvino «una terribile bestemmia contro Cristo», perché trasmette il messaggio che il sacrificio della croce non è sufficiente a cancellare tutte le colpe e tutte le pene, il che è l’esatto contrario della fede cristiana. Negare il purgatorio non significa però dimenticare i morti. Al contrario li dobbiamo ricordare, non però nella tomba o nel purgatorio, ma in Cristo.
2. La seconda risposta è quella del sonno in Cristo che, tra gli altri, anche Lutero ha fatto propria. Secondo questa concezione, quando si muore si entra in una condizione analoga a quella di un sonno profondo, senza sogni, in cui si perde la coscienza del tempo e dello spazio, e tutto succede «in un batter d’occhio» (I Corinzi 15,52). Scrive Lutero: «Dormiremo fino a quando Cristo arriverà e busserà alla nostra tomba: “Dottor Martino, alzati!”. E subito mi alzerò e vivrò insieme a lui nella gioia eterna». Quando dura il “sonno”? Può durare secoli e millenni, ma sembrerà sempre un attimo, perché nel sonno non ci accorgiamo del passare del tempo. Lutero prende alla lettera certe espressioni del Nuovo Testamento che parlano di coloro che «dormono in Cristo» (I Corinzi 15, 18.20; I Tessalonicesi 4, 13). Alla luce di questa concezione la risposta alla domanda del nostro lettore è: i morti “dormono in Cristo” e saranno svegliati all’ultimo giorno. Qui però ci sono due problemi. Il primo è che per molti interpreti l’espressione “dormire in Cristo” è un eufemismo (in uso nell’antichità) per dire “essere morti”, e non va quindi presa alla lettera, come invece fa Lutero. Il secondo è sapere se tutti i morti “dormono in Cristo”, o solo i credenti. Ciò nondimeno questa concezione ha un grande pregio: mette in luce il fatto che nel Cristo risorto non c’è più morte, ma solo vita e vita eterna. E quindi in lui si può solo “dormire”, ma non perire.
3. La terza risposta si muove nella scia della precedente ed è quella che si ricava da tante affermazioni del Nuovo Testamento, a cominciare da questa bellissima di Gesù: «Per lui [Dio] vivono tutti», anche quelli – diremmo – che per noi sono morti. E qui sono importanti sia il presente “vivono” (non “vivranno” in un futuro indeterminato, ma “vivono” adesso, in quella che potremmo chiamare l’istantanea dell’eternità di Dio), sia il “tutti”, davvero impressionante per noi sempre inclini a distinguere, classificare, separare gli uni dagli altri. Potrei citare tanti altri passi che tutti quelli che leggono la Bibbia conoscono a memoria, soprattutto di Giovanni (dove a esempio Gesù dice: «Chiunque vive e crede in me non morrà mai» – 11, 26) e di Paolo («Né vita né morte... potranno separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù» – Romani 8, 38). L’idea di fondo del Nuovo Testamento è che la morte non ci toglie lo Spirito Santo e non ci separa da Cristo, nel quale, come ho già detto, non c’è morte, ma vita. In questo senso il “dormire in Cristo” può essere qualcosa di più che una semplice metafora, nel senso cioè che Cristo, nella potenza della sua risurrezione, trasforma la nostra morte in sonno. E comunque, la certezza cristiana fondamentale è che, come dice il Catechismo di Heidelberg, «apparteniamo a Cristo, con il corpo e con l’anima, in vita e in morte». Sì, anche in morte. Questo “essere in Cristo”, appartenergli in vita e in morte, non è ancora la risurrezione dai morti che avverrà alla fine (fino ad allora «non è ancora reso manifesto ciò che saremo» I Giovanni 3, 2), ma è una comunione reale con il Risorto che spiega perché Gesù abbia potuto dire al ladrone: «Oggi tu sarai con me in paradiso» (Luca 23, 43). Non è ovviamente l’oggi del nostro calendario – oggi che domani diventerà ieri –, ma l’oggi eterno di Dio, il tempo senza tramonto al di là del nostro tempo che passa.
Che dire in conclusione? Dirò che in questo campo occorre sobrietà, perché qui più che altrove conosciamo «in parte, non ancora appieno» (I Corinzi 13, 12), e molte cose ora nascoste devono ancora essere svelate, ma occorre anche quella che il Nuovo Testamento chiama “parrhesía”, cioè la libertà di dire pubblicamente che noi crediamo in Cristo risorto, e quindi nella vittoria di Dio sulla morte e nella risurrezione dei morti. Si può allora dire di una persona deceduta, come disse il pastore citato nella lettera, che essa «è oggi con il Signore»? Sì, si può dire, ma – per favore – non perché Dio «premia le fatiche delle sue mani» (come disse, ahimè, il pastore), ma solo perché Cristo è risuscitato anche per lei.

Biografia

Paolo Ricca nasce a Torre Pellice (in provincia di Torino) nel 1936. Dopo aver conseguito la maturità classica a Firenze, studia Teologia a Roma, negli Stati Uniti e a Basilea (Svizzera), ove consegue il dottorato con una tesi sull’escatologia del Vangelo secondo Giovanni.
Consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercita il ministero a Forano e a Torino, e segue il Concilio Vaticano II per conto dell’Alleanza Riformata Mondiale. Dal 1976 al 2002 insegna Storia della Chiesa e, per alcuni anni, Teologia Pratica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
Membro per quindici anni della Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Ginevra), opera in diversi organismi ecumenici ed è per due mandati presidente della Società Biblica in Italia.
Attualmente è professore ospite presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma e dirige la collana “Lutero. Opere scelte” dell’editrice Claudiana di Torino.
Parole chiave di questo articolo
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