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Beati coloro che piangono, perché saranno consolati. Meditazione su Mt 5,4

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27/10/2010

Tratto da:
Enzo Bianchi, Le vie della felicità: Gesù e le beatitudini, Rizzoli, 2010, p. 40-47

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo brano, Enzo Bianchi commenta il passo del Vangelo di Matteo in cui Gesù proclama “beati” coloro che piangono, che sono afflitti. Nessun cedimento al dolorismo, a una certa spiritualità fatalistica che vede nelle sofferenze della vita un segno della predilezione divina, o una via di elevazione morale: anche a partire dalla fede, sottolinea Bianchi, non esiste «una risposta chiara ed evidente al perché della sofferenza». Ma la vita di Cristo, e il suo modo di affrontare il dolore, possono aiutarci a trovare un senso in questa paradossale beatitudine, che davvero «urta con forza la nostra saggezza umana». Un senso che riposa non solo nell’attesa propria del credente, quella di una vita “altra” in cui sarà Dio a farsi carico di asciugare le nostre lacrime, ma anche nella possibilità di uno stile di vita adottabile già qui e ora, su questa terra, affidato alla responsabilità di ciascuno e condivisibile anche da chi non crede.
L’esempio di Cristo, sempre normativo per il cristiano, solo criterio ermeneutico per capire in profondità anche le sue parole più difficili ed esigenti, ci dice che ciò che conferisce senso alla nostra vita – e può donarci, nonostante tutto e seppure a caro prezzo, la felicità – non sono le sofferenze in sé, ma l’amore che ci impegniamo a donare e accettiamo di ricevere anche quando le sofferenze «si abbattono come onde su di noi e sembrano sommergerci». E’ questa, sottolinea Bianchi, la vera sfida, questa è «la via cristiana, che può però essere sentita come possibilità ragionevole, significativa e umanizzante anche da parte di chi non è credente».
In concreto, Cristo ci insegna con la sua vita due cose fondamentali. La prima è che «contro la sofferenza abbiamo il diritto di lottare»: restando consapevoli, però, che «non siamo eterni, non siamo onnipotenti, non siamo immuni da malattia e dolore». La seconda è che, se non c’è risposta alla sofferenza e al pianto, tuttavia «ci può essere risposta agli uomini e alle donne che soffrono e piangono» e che – come afferma un passo straordinario del libro del Qoelet – il nostro compito non è tanto, o soltanto, quello di interrogarci sul perché delle lacrime, ma soprattutto quello di adoperarci affinché non esistano più «lacrime da nessuno consolate».
Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati coloro che piangono, perché saranno consolati. (Mt 5, 1-2.4)

Introduzione
La seconda beatitudine è rivolta agli afflitti, a coloro che piangono: «Beati coloro che piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Qui il paradosso è evidente più che mai: sono dichiarati beati, dunque felici, quelli che sono afflitti. Davvero in questo caso il messaggio delle beatitudini urta con forza la nostra saggezza umana, la nostra razionalità.
Va anche detto che questa beatitudine si apre a un orizzonte universale, quello di tutta l’umanità, perché in ogni tempo e in ogni terra ci sono stati, ci sono e ci saranno uomini e donne che piangono. Proprio tale ampiezza di orizzonti spaventa e interroga i commentatori, che notano in questa parola di Gesù la mancanza di una portata religiosa, spirituale, la quale si evince solo dal contesto più generale delle beatitudini. Tuttavia a me sembra importante che proprio questa parola di Gesù su quelli che piangono possa essere indirizzata a ogni uomo, che sia discepolo di Gesù o che non lo conosca, che sia credente o non credente: ogni uomo è interpellato da questa beatitudine perché ogni uomo conosce il pianto nella sua vita. (...)
Vorremmo non vedere, vorremmo non accorgerci, vorremmo far finta di nulla, eppure ci sono uomini e donne che piangono a causa della morte loro e dei loro cari, a causa della sofferenza fisica e psichica, a causa della fame, della violenza, della guerra, dell’oppressione e anche a causa del loro peccato; qualcuno a volte ha anche il raro dono di piangere di gioia. Nella Bibbia il pianto, le lacrime sono un linguaggio, una voce molto presente: soprattutto nei Salmi le lacrime appaiono il segno della condizione del giusto che soffre, che «non ha altro pane che lacrime di giorno e di notte» (cfr. Sal 42,4), che «ogni notte piange sul suo letto, bagnando di lacrime il suo giaciglio» (cfr. Sal 6,7). Ed egli, nella sua afflizione, è visto e consolato da Dio, dal «Signore che ascolta i suoi singhiozzi» (cfr. Sal 6,9), che «non resta sordo al suo pianto» (cfr. Sal 39,13) e che «raccoglie le lacrime in un otre» (cfr. Sal 56,9) per ricordarsi di esse e in tal modo accogliere il gemito di chi piange.
Ma la domanda resta: da dove verrà la beatitudine per coloro che piangono? Verrà da un capovolgimento della loro situazione: Gesù ci ha rivelato che nel giudizio quelli che non hanno conosciuto il pianto, e anzi hanno riso e mai si sono accorti delle lacrime del prossimo, questi piangeranno. Ecco perché in Luca la beatitudine: «Beati voi, che ora piangete, perché riderete» (Lc 6,21), è seguita dall’avvertimento: «Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete» (Lc 6,25). D’altra parte la beatitudine riservata a coloro che piangono non ha una possibilità di realizzazione solo nel giorno del giudizio, ma già qui e ora: già nei loro giorni, sulla terra, quelli che piangono possono conoscere una consolazione che viene dallo Spirito santo, il Paraclito, il Consolatore (cfr. Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), che nell’angoscia è accanto a loro (cfr. Sal 91,15) e dona loro forza e gioia da parte di Dio.
Va anche riconosciuto che alcuni interpreti di questa beatitudine insistono nel dire che non tutti gli afflitti sono proclamati beati da Gesù, e ricordano a questo proposito l’esempio dell’uomo ricco che, non avendo accolto l’invito di Gesù a seguirlo, se ne andò triste (cfr. Mc 10,22 e par.): c’è una tristezza che è un peccato – quella che Paolo ha definito «tristezza secondo il mondo», opponendola a quella «secondo Dio» (cfr. 2Cor 7,10) –, una tristezza che non è un pianto, un’afflizione, ma è una tristezza che paralizza e può addirittura essere mortifera.
Dopo questa breve introduzione, cerchiamo ora di fare una meditazione più puntuale sulla nostra beatitudine.

Coloro che piangono perché soffrono
Anche se oggi la cultura in cui viviamo cerca di rimuovere e nascondere la sofferenza, noi restiamo convinti che essa è presente ed è la minaccia, la contraddizione alla nostra vita felice: è presente nei corpi, nelle menti e nei cuori che soffrono fino a piangere... Chi soffre fa addirittura l’esperienza di non poter esprimere pienamente e di non poter comunicare la sua sofferenza, la quale appare veramente a ognuno di noi come la sventura peggiore. Di fronte a essa la domanda che sorge spontanea è: «Che senso ha soffrire? Perché soffrire cosi?». Per esprimere l’universalità di questa consapevolezza vorrei citare un brano contenuto in un testo sacro dell’induismo: «Il destino comune a tutti gli uomini, ciò che li unisce tutti è la sofferenza, la morte, l’ignoranza». Ecco l’enigma per eccellenza della nostra vita, che nella fede può però diventare mistero, e può diventarlo quando – come scriveva con grande intelligenza Giovanni Moioli – «al dolore riusciamo a dare il nome di croce» (Giovanni Moioli, La parola della croce, Edizioni Viboldone, San Giovanni Milanese 1987, p. 51-64), Ripeto, nella fede può: non c’è subito una risposta chiara ed evidente al perché della sofferenza, a questo enigma, neanche a partire dalla fede.
Innanzitutto dobbiamo essere sinceri con noi stessi: nella sofferenza siamo tentati di diventare più attenti a noi stessi, più egoisti, siamo tentati di cercare una salvezza senza gli altri e magari a scapito degli altri. La sofferenza a volte abbruttisce, rende aggressivi e ci fa assumere comportamenti che, nella loro violenza, ci erano estranei in passato. La sofferenza è una prova terribile, che nessuno di noi può sfuggire. Prima o dopo, e con diversa intensità, noi soffriamo e conosciamo l’esperienza dolorosa del lutto: soffriamo quando siamo separati dalla madre con il taglio del cordone ombelicale; soffriamo quando dobbiamo lasciare padre, madre e terra e, più in generale, quando dobbiamo lasciare qualcosa che ha rappresentato un valore positivo nella nostra vita; soffriamo quando dobbiamo rinunciare ai sogni di felicità, quando perdiamo la salute, quando perdiamo chi amiamo; soffriamo quando invecchiamo e ci sfuggono le forze e il tempo; soffriamo quando la morte si avvicina e dobbiamo rinunciare a vivere. Sono tutte sofferenze necessarie, senza le quali non si cammina nella vita, sono sofferenze che dobbiamo attraversare e che provocano afflizione, pianto...
Le sofferenze di per sé non sono utili né salvifiche, non sono automaticamente una forma di purificazione, un mezzo per diventare più buoni. Credo però che in esse e attraverso di esse si giochi sempre la salvezza della nostra vita, la ricerca di senso: in particolare, quando le sofferenze si abbattono come onde su di noi e sembrano sommergerci, proprio allora ci è chiesto di impegnarci ad amare e ad accettare di essere amati. (...)
Insomma, siamo chiamati a fare della sofferenza una via di comunione: questa è la sfida, questa è la via cristiana, che può però essere sentita come possibilità ragionevole, significativa e umanizzante anche da parte di chi non è credente.
Sappiamo bene che nella sofferenza affiorano, fino a imporsi, le domande essenziali per l’uomo: «Da dove vengo? Dove vado? Chi sono io? Chi sono gli altri per me?», perché – come dice il Salmo – «l’uomo nel benessere non comprende» (Sal 49,21), è tentato di non discernere. Quando vediamo e accostiamo chi soffre, ci mancano le parole; a volte possiamo solo stargli accanto, offrirgli la presenza, far sentire la nostra mano nella sua mano: ma anche questo, pur nel silenzio, è un cammino di comunione, dunque un cammino salvifico, per quanto noi possiamo fare qui, sulla terra. Contro la sofferenza abbiamo il diritto di lottare, per contenerla, per vincerla se possibile; contro la sofferenza occorre resistere con tutte le forze di cui disponiamo. Nello stesso tempo, però, ci attende anche un altro comportamento, non di resa, ma di sottomissione e di obbedienza alla nostra condizione: non siamo eterni, non siamo onnipotenti, non siamo immuni da malattia e dolore. E questa lotta diventa più efficace e più dotata di significato se è fatta «insieme», in modo che «si piange con chi piange» (cfr. Rm 12,15), si è accanto a chi è malato, si abbraccia chi si sente precipitare negli abissi infernali.
Nessuno può risolvere il problema della sofferenza né c’è alcuna risposta certa al perché della sofferenza, ma le vie di consolazione sono percorribili, con gli altri e comunque con Dio, il Consolatore. Detto altrimenti, non c’è risposta alla sofferenza, al pianto, ma ci può essere risposta agli uomini e alle donne che soffrono e piangono: una risposta che può venire dagli altri, cioè da noi, e da Dio.
Dio è colui che grida a noi: «Consolate, consolate il mio popolo [. .. ] parlate al suo cuore» (Is 40,1-2; cfr. Os 2,16); è colui che manda il suo Servo a «consolare tutti gli afflitti» (Is 61,2), testo che probabilmente ha ispirato la beatitudine matteana; è colui che invia il Consolatore perché porti consolazione e gioia. Sì, a tutti gli uomini che piangono, nella loro sofferenza Dio promette: «Io vi consolerò» (Is 66,13). Poi li rassicura: «Io cambierò il vostro lutto in gioia, vi consolerò e vi renderò felici, senza afflizioni» (cfr. Ger 31,13). Ovvero: «La vostra sofferenza sarà da me trasfigurata, non andrà perduta»!
Quanto alla consolazione possibile a opera di noi uomini, è esemplare l’atteggiamento di Gesù: nei suoi molti incontri con i sofferenti egli non ha mai predicato rassegnazione, non ha mai mostrato atteggiamenti fatalistici o doloristici, non ha mai chiesto di offrire la sofferenza a Dio, non ha mai detto che più uno soffre, più uno è vicino a Dio. Gesù sapeva bene che è l’amore, non la sofferenza, che salva! Per questo si è preso cura dell’umanità sofferente, di chi vedeva piangere, rinnovando una volta di più la sua offerta di amore. Ecco qual è l’opera di consolazione richiesta anche a ciascuno di noi, per quanto ci è possibile: adoperarci affinché non esistano più «lacrime da nessuno consolate» (cfr. Qo 4,1).
Questa duplice opera di consolazione mi pare mirabilmente riassunta in un passo della Seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2Cor 1,3-4).

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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